VERTICAL FARMING: IL FUTURO È ANCORA TUTTO DA SCRIVERE, TRA VANTAGGI E POSSIBILI INCOGNITE

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Inizialmente pensato per affrontare la crescente domanda di cibo fresco degli abitanti delle grandi megalopoli o per la produzione agricola in zone geografiche con condizioni climatiche estreme o inospitali, il vertical farming ha, nel giro di pochi anni, rivoluzionato il concetto stesso di agricoltura evidenziando, a livello nazionale, anche alcuni “vuoti” normativi.

La crescente urbanizzazione, la diminuzione della quantità e/o qualità dei suoli e delle risorse idriche, la necessità di ridurre l’impronta ambientale dell’agricoltura ridimensionando l’utilizzo di fertilizzanti e fitofarmaci, gli effetti prodotti dal cambiamento climatico sui sistemi agricoli tradizionali sono i principali fattori che hanno guidato la crescita del mercato del vertical farming. La pandemia COVID-19 ha, inoltre, aumentato l’interesse dei consumatori verso prodotti freschi ottenuti localmente in alternativa alle più lunghe catene di approvvigionamento convenzionali.

Sebbene con notevoli differenze a seconda delle fonti e delle metodologie di stima utilizzate, il vertical farming ha attraversato una fase di rapida ascesa ed è stato considerato una soluzione sostenibile e conveniente per la produzione di cibo su larga scala. Tuttavia, come spesso accade quando sistemi produttivi, tecnologie e modelli di consumo vengono importati senza una preventiva verifica, non ha sempre prodotto i risultati attesi e stiamo assistendo a un raffreddamento degli entusiasmi iniziali e al ridimensionamento delle previsioni per il futuro.

In generale, il vertical farming ha ancora alcune criticità tecnologiche, agronomiche e commerciali da risolvere. Tra queste: alti costi di investimento per la costruzione/ristrutturazione degli edifici, l’acquisto e l’installazione di impianti e attrezzature; elevati consumi energetici per l’illuminazione artificiale e la climatizzazione con conseguenze negativi sull’impatto ambientale, soprattutto se l’energia viene prodotta da fonti non rinnovabili; richiesta di manutenzione costante e manodopera specializzata; complessità di gestione, scarsa diversificazione colturale (le vertical farm sono spesso definite “fabbriche di insalata”).

Inoltre, deve competere, laddove i centri di produzione non sono molto lontani da quelli di consumo, con l’agricoltura tradizionale generalmente caratterizzata da costi e, quindi, da prezzi inferiori. Infine, molti sono ancora gli “scettici” sulla qualità di un cibo prodotto in strutture considerate “industriali”. In estrema sintesi, l’impatto socio-economico del vertical farming non è ancora chiaro poiché i potenziali vantaggi e svantaggi sono al momento solo teorizzati e poco ancora si conosce sugli effetti di medio-lungo periodo di questo metodo di produzione sull’ambiente e la società urbani.

Va sottolineato che il vertical farming è una tecnologia relativamente nuova e in continua evoluzione e che, al di là di molte speculazioni filosofiche, quasi non esiste letteratura scientifica sulla fattibilità economica di questi sistemi. C’è anche un aspetto metodologico da considerare nell’analisi della letteratura tecnico-scientifica sulla sua sostenibilità ambientale: i vantaggi rispetto all’agricoltura “tradizionale” in termini di efficienza d’uso delle risorse (es. acqua, nutrienti, fitofarmaci) derivano tutti dalla maggiore superficie coltivata per unità di superficie di suolo investita (che si traduce in una più elevata efficienza d’uso del suolo).

Molti confronti sono, banalmente, effettuati con l’orticoltura di pieno campo e di valore limitato a causa dell’estrema diversità dei due sistemi produttivi. Rari, invece, sono i confronti con la serricoltura high-tech che può raggiungere livelli produttivi e di efficienza estremamente elevati (con costi inferiori) e per la quale sono già allo studio tecnologie per la coltivazione in verticale.

In conclusione, l’ipotesi che il vertical farming possa rappresentare una soluzione a lungo termine alle sfide dell’agricoltura richiede analisi oggettive nei diversi contesti. Le prospettive per il futuro sembrano legate allo sviluppo di tecnologie in grado di superare le criticità sopra descritte molte delle quali, tuttavia, sono ancora pionieristiche e rivelano nuove domande di ricerca che vanno dalla fisiologia vegetale, alla fisica applicata, all’ingegneria, all’informatica, alle scienze sociali. Le risposte fornite segneranno il futuro del vertical farming quale “componente” di una ben più ampia revisione tecnologica dell’agricoltura “tradizionale” chiamata a produrre di più con meno per sfamare una popolazione mondiale in crescita.

Stefania De Pascale
Ordinario di Orticoltura e Floricoltura all’Università Federico II di Napoli, vicepresidente CREA 

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