STUDIO ISMEA, ECCO LE POTENZIALITÀ DELLE PICCOLE E MEDIE COOP ALL’ESTERO

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È ormai assodato che ad oggi il mercato interno stia vivendo un momento difficile, anche a causa della sua evidente scarsa capacità di assorbire la domanda locale, tanto da diventare fondamentale la ricerca di nuovi sbocchi commerciali.

Da questa considerazione nasce il nuovo studio di Ismea “Strategie commerciali e di marketing, potenzialità di espansione delle cooperative agroalimentari di piccola e media dimensione sui mercati esteri”, condotta nel 2014-2015 e disponibile a questo link (leggi qui).

Le piccole/medie cooperative sono la vera forza dell’economia italiana e costituiscono la stragrande maggioranza delle circa 5.000 coop agroalimentari esistenti nel nostro Paese. L’indagine – volta ad analizzare una serie di problematiche relative alle strategie di investimento e all’identificazione degli spazi e delle relazioni commerciali – è stata compiuta su un campione di 60 realtà che già operano all’estero in riferimento a 12 mercati target (3 europei e 9 extra-europei), effettuando ricerche desk, osservazioni nei punti vendita, interviste a testimoni privilegiati, Istituzioni, operatori commerciali e focus group con consumatori finali.

Dall’analisi è emersa una tendenziale diffusione della cultura del food trasversale a tutti i paesi. Parallelamente l’alimentazione salutistica sta riscuotendo sempre più consensi e i prodotti biologici si stanno propagando a macchia d’olio. Ma non solo; l’aumento di comportamenti d’acquisto eticamente corretti e rispettosi dell’ambiente, seppur con forza ben diversa nei vari continenti, è un atteggiamento sempre più diffuso. I fattori di differenziazione legati all’animal welfare, alla sostenibilità a lungo termine, al comportamento etico verso l’agricoltore tuttavia non hanno relegato ad un ruolo di secondo piano il requisito della qualità organolettica, che resta fondamentale.

Un altro trend osservato è la crescente attenzione al prodotto locale o quanto meno nazionale. La scelta, ove possibile, del km zero è legata a benefici sulla salute dell’ambiente, al sostegno all’economia e all’occupazione locale, ma anche alla maggiore attenzione alla salute delle persone e alla freschezza attribuita al prodotto, in modo particolare per l’ortofrutta. Avvicinarsi il più possibile al luogo di origine del prodotto migliora le sensazioni circa le questioni di garanzia e di controllo. Sebbene il concetto di local sia principalmente circoscritto ai confini amministrativi del paese, è stato osservato che talvolta si pensa più alla dimensione del produttore che non al raggio di provenienza. In riferimento all’alternativa tra una azienda piccola e una grande, le preferenze in linea di massima vanno infatti a favore della prima, in relazione all’impressione di cura, qualità e genuinità. Questo dunque può rappresentare un vero punto di forza per le piccole/medie cooperative nostrane che, sebbene non geograficamente local, vantano dimensioni più attrattive rispetto alle grandi multinazionali. In particolare ciò è valido nel caso dell’ortofrutta, ma dipende anche dalla stagione e dal tipo di prodotto. In Danimarca, per esempio, si ricorre al made in Italy nel caso di pomodori, uva e altre tipologie di frutta e verdura notoriamente di qualità superiore rispetto a quelle locali. In generale, se una produzione viene realizzata anche in loco e con pari qualità, allora è preferito il km zero.

Nel valutare la destinazione migliore per il proprio export, la piccola/media cooperativa agroalimentare si trova ad affrontare una scelta complessa per fattori legati alla distanza, alle abitudini, alla cultura, alle infrastrutture, alla tipologia di distribuzione, ecc. È poi evidente che per motivi di trasporto, di shelf life e di limitazioni all’accesso, l’export ortofrutticolo si concentra maggiormente verso l’area europea. In sintesi, l’opportunità di export in un determinato mercato va valutata attentamente in termini di rapporto costi/benefici. Tenendo ben presente che tra i costi bisogna considerare anche quelli relativi alle certificazioni sanitarie, alla burocrazia, alle quote di importazione e alle accise, dall’indagine emerge che a fronte delle barriere pare esservi un notevole spirito di adattamento: l’importatore che assiste nelle pratiche per l’etichettatura, l’agente che segue i tender con i monopoli nei vini, la consapevolezza che il dazio colpisce anche i concorrenti, ecc. È come se l’esperienza quotidiana contribuisse a trovare e a rafforzare le piccole e grandi soluzioni che aiutano l’azienda a superare l’ostacolo.

Per settori come l’ortofrutta, dove senza protocolli non è possibile esportare in molti grandi paesi extra Ue, vi sarebbero interessantissimi spazi di mercato per prodotti frigoconservabili e con buona shelf life, che soffrono notevolmente per queste limitazioni. Il lavoro delle Autorità preposte, italiane ed europee, diventa dunque di fondamentale importanza. Oltre a quelle tariffarie e normative, i produttori incontrano talvolta una serie di altre barriere tra cui quelle costituite dalla conoscenza poco diffusa del prodotto. Se non si può puntare a una completa simmetria informativa, si può però migliorare il livello di conoscenza da parte dei clienti intermedi e finali. Anche la singola cooperativa può puntare a una diffusione maggiore dei propri marchi e prodotti attraverso piccole ma importanti azioni di marketing per comunicare in modo incisivo – anche solo attraverso il sito e il packaging – i fattori che possono alzare la qualità percepita del prodotto (la tipicità, l’ambiente di produzione, i valori simbolici, ecc.).

Le medesime considerazioni possono essere espresse per il mediatore in ortofrutta che può offrire un contributo per interfacciarsi adeguatamente, a seconda delle proprie specializzazioni, con importatori, grossisti o direttamente con catene. L’esigenza di “educare” i consumatori e gli operatori all’uso dei prodotti italiani avviene generalmente in contemporanea ad eventuali adattamenti all’utilizzo dei singoli mercati esteri. Ogni cooperativa cerca di trovare di volta in volta il corretto livello tra le due alternative: adattarsi alle esigenze di ogni paese oppure mantenere immutato il prodotto limitandosi a modificare solo le caratteristiche che devono necessariamente essere adattate. Flessibilità che torna utile nella scelta di adottare una politica di marca oppure spingere sulla denominazione della categoria di prodotto, più facilmente collegabile al made in Italy. Tale valutazione è da effettuare a seconda del blasone e della spendibilità dell’una e dell’altra, del rischio di creare disorientamento, dell’esigenza di smarcarsi da una situazione di indifferenziazione.

Particolarmente interessanti sono state alcune esperienze rilevate nel corso dello studio, nate dalla collaborazione con cooperative estere. Partnership che talvolta possono portare ad ottenere prodotti innovativi o nuovi abbinamenti (come la confezione mista di formaggi italiani – pecorino e primo sale – e spagnoli – manchego e iberico – presente sul mercato danese).

La presenza in fiera – con stand proprio o in spazi collettivi gestiti da Camere di Commercio o da Consorzi di tutela – è ritenuta senz’altro utile, così come la loro frequentazione anche senza partecipazione diretta. Chiaramente durante le manifestazioni non si vende, ma si tessono rapporti, s’incontrano i clienti acquisti, si conoscono i nuovi potenziali, si monitora la concorrenza, si percepiscono gli umori.

In generale dunque, dallo studio emerge senza ombra di dubbio che le decisioni relative alla tipologia di prodotti da proporre, alla marca, al prezzo, al posizionamento nel suo complesso, devono sempre essere prese considerando attentamente le possibilità dell’azienda, il contesto competitivo e le mosse della concorrenza.

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