IL PREZZO MINIMO PER LEGGE ANNULLA IL MERCATO. QUANTI EQUIVOCI SUI PREZZI ‘CALMIERATI’ NEI PUNTI VENDITA DELLA GDO

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di Corrado Giacomini *

Prezzi, il grande tormento degli imprenditori. Se non sei un monopolista, devi cercare di vendere sul mercato al prezzo più alto possibile, che può generare un margine positivo soltanto se è superiore al costo di produzione. Ma sul mercato c’è anche la presenza della concorrenza, per cui dovrai tener conto dei prezzi fatti dagli altri operatori, ognuno dei quali si trova in situazioni economico/finanziarie diverse dalle tue. E qui si forma il prezzo che dovrai accettare soprattutto se, come in agricoltura, l’ammontare dell’offerta non è in grado di influenzare l’equilibrio di mercato. In una forte situazione di crisi di mercato, può mettere tutti d’accordo la fissazione per legge di un prezzo almeno uguale al costo di produzione.
Proprio sul “Corriere Ortofrutticolo” più volte ho sollevato la questione di come è possibile calcolare un prezzo minimo almeno uguale al costo di produzione. Se è lo Stato che lo fissa, non può che essere riferito a un costo medio di produzione, ma è evidente che questo prezzo minimo creerà degli extraprofitti (termine oggi di moda !!) per le aziende, che grazie agli investimenti in innovazioni, potranno contare su un costo inferiore, mentre per molte altre non coprirà i costi sopportati. Un prezzo minimo fissato per legge frenerà, inoltre, la convenienza a investire in innovazioni trainate da prezzi crescenti, favorirà l’importazione di beni a un prezzo inferiore e spingerà gli operatori più forti, e non sono certamente gli agricoltori, a frenare fasi espansive del mercato che potrebbero far superare quel prezzo minimo.

Tuttavia, tutti sembrano volere che il prezzo non scenda sotto il costo di produzione, desiderio comprensibile, ma è anche vero che questo intervento dello Stato annullerebbe il mercato che, comunque, attraverso il prezzo permette di raggiungere l’equilibrio tra domanda e offerta. Facile la replica, perché sul mercato agisce anche la speculazione che sfrutta la debolezza della controparte, trasformando in margine a proprio vantaggio la differenza di prezzo che riesce a realizzare tra domanda e offerta. Purtroppo questa è la situazione che subiscono spesso gli agricoltori condizionati da produzioni oggetto di investimento in tempi spesso lontani dall’offerta, con caratteristiche di conservazione che costringono a esitarle rapidamente sul mercato e che molto spesso rappresentano una frazione molto piccola dell’offerta totale, per cui non sono in grado di influire sulla formazione del prezzo. La soluzione del prezzo minimo fissato per legge è certamente la più facile, ma con questa c’è il rischio di annullare il mercato.
In uno degli ultimi numeri de “L’Informatore Agrario” ho letto la petizione di un giovane agricoltore (ripresa anche dal Corriere Ortofrutticolo) – a cui si sono aggiunte altre 3400 firme – che chiedeva allo Stato, appunto, di fissare un prezzo minimo per l’ortofrutta. Vorrei chiedere al giovane se l’investimento nella sua azienda di 30 ettari di frutteto, certamente realizzato dal nonno e dal padre, è stato possibile grazie al prezzo garantito dallo Stato o dal mercato ?
In una situazione di inflazione come l’attuale, lo Stato può anche cercare di convincere la distribuzione a ridurre il proprio livello dei prezzi. E’ quanto è avvenuto in questi giorni attraverso l’iniziativa del Mimit (Ministero dell’Industria e del Made in Italy) che ha promosso per il trimestre ottobre/dicembre l’iniziativa del “trimestre anti-inflazione”, al quale ha aderito, di malavoglia, anche l’industria alimentare. L’altra sera in un telegiornale è apparsa una striscia che riportava una frase del Ministro Urso: “Sono 26.000 i punti vendita con prezzi calmierati”. La parola sbagliata è “calmierati”, perché sulla Treccani significa “prezzo massimo di vendita fissato in via amministrativa”, mentre sulla base del Protocollo “Trimestre Anti-inflazione” firmato dalla grande distribuzione e ancora di più nella lettera di intenti dell’industria alimentare, ciascun punto vendita e ciascuna azienda industriale può decidere liberamente i prodotti da destinare e la riduzione di prezzo da applicare. Nel “trimestre anti-inflation” promosso dal Ministero dell’Economia francese già dal mese di marzo e che è stato esteso fino alla fine dell’anno, l’accordo si è raggiunto con le catene della grande distribuzione sulla base della scelta libera dei prodotti da destinare e sull’impegno da parte delle imprese di applicare i prezzi “più bassi possibili”, tanto che è diventato un terreno di concorrenza tra le diverse catene al quale, ad esempio, LECLERC, una delle più importanti, non ha aderito lanciando una propria campagna di circa 1000 prodotti a marca dell’insegna a prezzo scontato. Una ricerca affidata alla DGCCRF (Autorità Antitrust) dal Ministero dell’Economia francese avrebbe accertato che il “trimestre anti-inflation” ha permesso di raggiungere una riduzione media del 13% dei prezzi del paniere dei beni coinvolti. Per la verità l’UFC (Unione dei consumatori) contesta questo risultato affermando che in realtà i prezzi erano già aumentati prima dell’iniziativa o di fatto si sono attestati sulle promozioni già in vigore.
Forse né un prezzo minimo fissato per legge né una prezzo “calmierato” (come lo chiama il ministro Urso) sono la soluzione, certamente possono essere un aiutino in una fase di inflazione, ma speriamo di tornare al mercato che ha concesso al nonno e al padre di quel giovane agricoltore di acquistare e investire in una azienda di 30 ettari di frutteto.

*economista agrario

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