PRATICHE SLEALI: PIÙ TUTELE PER IL PRODUTTORE, MA RIMANE IL RISCHIO DEI RICORSI

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Ne “L’Informatore Agrario” del 17 giugno scorso è apparso un mio lungo articolo dal titolo “Pratiche sleali: un miraggio l’equo prezzo al produttore?” dove prendevo in esame il testo di legge delega n. 52 del 22 aprile 2021 che, tra altre direttive, recepiva all’art. 7 la n. 633/2019 sulle pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare.

Nell’articolo, ponevo l’attenzione soprattutto sulla difficoltà di fissare per legge dei criteri capaci di assicurare un “equo prezzo” al produttore agricolo e portavo a supporto gli effetti insoddisfacenti della legge francese “Pour l’équilibre des relations commerciales dans le secteur agricole et alimentaaire et una alimentatation saine, dureable et accessible a tous” (citata con l’acronimo EGALIM ). Si tratta di una legge del 2018, risultato di un ampio dibattito tra tutte le forze produttive e sociali della filiera che nei tre anni di applicazione non pare abbia raggiunto l’obiettivo di assicurare ai produttori agricoli un miglioramento del reddito, tanto che è in corso di revisione. Da sottolineare, che fino dalla metà degli anni ’90 in Francia c’è stata una copiosa produzione legislativa diretta a regolare i rapporti tra la grande distribuzione e la produzione agroalimentare, ma proprio il succedersi degli interventi legislativi é la prova che gli obiettivi che si proponeva il Governo francese non sono stati raggiunti.
In questi giorni si è reso disponibile lo “Schema di decreto legislativo recante attuazione della direttiva (UE) 2019/633 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019 in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare”, su cui gli Uffici del MIPAAF stanno lavorando per sottoporlo all’approvazione del Consiglio dei Ministri e, quindi, dare completa attuazione alla direttiva.
In primis, il comma 2, art. 1, del D. Lgs. supera il disposto della direttiva che poneva dei limiti di fatturato alle imprese le cui operazioni potevano essere oggetto di pratiche commerciali sleali, infatti recita che le disposizioni del decreto si applicano “… indipendentemente dal fatturato dei fornitori e degli acquirenti”. Spesso avviene che il volume di fatturato dell’acquirente sia superiore a quello del fornitore, soprattutto se si tratta di un agricoltore, ma in caso contrario non è detto che il potere contrattuale dell’acquirente, che non dipende solo dal volume di fatturato, non possa indurlo a compiere delle pratiche sleali.
Il D.Lgs., comma 1, art. 3, ripete l’obbligo, già contenuto nell’art. 62 del D.L. n. 1/2012, della stesura in forma scritta del contratto prima della consegna, escludendo possibili forme equipollenti consentite invece dal D.M. n. 199/2012, che dava attuazione a quell’articolo, con indicata la durata, la quantità e le caratteristiche del prodotto venduto, il prezzo, le modalità di consegna e di pagamento. Il comma 1, art. 3, esclude la forma scritta nel caso di cessioni con contestuale consegna e pagamento del prezzo pattuito, di cessioni al consumatore finale nonché di conferimenti da parte di imprenditori agricoli a cooperative di cui sono soci. Da osservare, che il comma 1, art. 3, non stabilisce, come chiede il punto q) dell’art. 7 della legge delega, che la mancanza di almeno una delle condizioni richieste dall’art. 168, paragrafo 4, del regolamento (UE) n. 1308/2013, costituisce di per sé una pratica commerciale sleale, tanto da non includere negli elementi essenziali del contratto “le norme applicabili in caso di forza maggiore”, che rappresentano l’ultima condizione richiesta dall’art. 168.
Lo stesso D.M. n. 199/2012 considerava non cessione di beni, quindi non soggetta all’obbligo di stesura in forma scritta del contratto, sia i conferimenti dei soci alla propria cooperativa che “i conferimenti di prodotti agricoli e alimentari operati dagli imprenditori agricoli a organizzazioni di produttori” di cui sono soci. A mio avviso, bene fa lo schema di D.Lgs. a escludere solo i soci di cooperativa, perché il riconoscimento di OP può essere concesso sia a cooperative, nel qual caso nulla si oppone all’applicazione al comma 1, dell’art. 3 del D.Lgs., o a società di capitali o di tipo consortile ex art. 2615ter, alle quali non è applicabile l’istituto del “conferimento” nel caso di trasferimento di proprietà di beni tra impresa del socio ed OP.
Il comma 2, dell’art. 3, stabilisce poi che la durata del contratto non possa essere inferiore a “dodici mesi”, salvo deroga concordata tra i contraenti con l’assistenza delle rispettive “organizzazioni professionali maggiormente rappresentative a livello nazionale” anche per il tramite delle loro articolazioni provinciali. La prima osservazione che si può fare è che la durata di dodici mesi del contratto fissata per legge impone una rigidità eccessiva, ma lo è forse di più la possibilità di deroga sottoposta all’assistenza delle organizzazioni professionali maggiormente rappresentative, condizione che nella nostra legislazione troviamo solo nei contratti di affitto di fondo rustico.
Per quanto riguarda la durata minima del contratto di dodici mesi, prevista anche per il latte crudo dall’art. 148 del Reg. n. 1308/2013 “salvo rinuncia espressa dall’allevatore” e dall’art. 168 dello stesso regolamento relativamente ai contratti di cessione di prodotti agricoli (escluso lo zucchero, il latte e i prodotti lattiero-caseari) “ad eccezione dei contratti a carattere stagionale”, forse sarebbe opportuno introdurre le eccezioni previste negli articoli citati. Da considerare, tuttavia, che la fissazione di una durata minima di dodici mesi, addirittura portata a tre anni nella proposta di legge di revisione della legge EGALIM in discussione al Parlamento francese, ha l’obiettivo di stabilizzare i rapporti di scambio nell’ambito della filiera agroalimentare per cui, forse, potrebbe essere l’occasione per rivedere l’attuale prassi contrattuale. Rappresenta, invece, una condizione di forte rigidità il fatto che non è lasciata la revisione della durata del contratto alle sole parti, come previsto in altri articoli del D.Lgs., pur assicurando la presenza di tutti gli elementi che garantiscano la trasparenza e la correttezza della revisione.
Un altro punto, nel quale viene prevista l’intervento delle organizzazioni professionali è contenuto nel comma 3, dell’art. 3, dove si precisa che sono fatte salve le condizioni contrattuali, comprese quelle relative ai prezzi, definite da accordi quadro nazionali stipulati, appunto, da queste. Nulla da eccepire su questa disposizione, tuttavia il D.Lgs. dimentica che la determinazione dei prezzi a livello collettivo può avvenire anche per circoscrizioni economiche delle diverse produzioni (ad esempio, il prezzo del pomodoro da industria nelle regioni settentrionali e, ora, anche in quelle meridionali dove l’accordo sul prezzo è siglato dalle organizzazioni industriali e dalle OP dell’area). E’ vero che la regolamentazione comunitaria vigente proibisce che l’interprofessione si esprima nella formazione del prezzo, ma è anche vero che nei nuovi regolamenti della PAC 2021/27 il ruolo dell’interprofessione viene valorizzato e che l’interprofessione in alcuni Paesi (Francia) è già punto di riferimento per la formazione del prezzo.
Il D.Lgs. precisa e ridefinisce negli articoli successivi i termini di pagamento già previsti dall’art. 62 per i prodotti alimentari deperibili e non deperibili, e ripete l’elenco (art. 4) delle pratiche commerciali sleali vietate dalla direttiva, precisando per alcune (art. 5), che possono essere consentite, se oggetto di diverso accordo tra fornitore ed acquirente.
L’art. 7 del D.Lgs. disciplina, poi, le vendite sottocosto, stabilendo che sono consentite solo nel caso in cui si registri del prodotto invenduto a rischio di deperibilità o nel caso di operazioni programmate e concordate in forma scritta tra le parti.
Come ho scritto, nell’articolo de “L’Informatore Agrario”, avevo posto l’attenzione sull’art. 7 della legge delega, che applicava la direttiva n. 633/2019, con riferimento alle difficoltà di fissare per legge dei criteri capaci di assicurare un “equo prezzo” al produttore agricolo e in ciò ero stato confortato dagli insoddisfacenti risultati della legge EGALIM applicata negli ultimi tre anni in Francia.
Su questo punto, mi pare, che il D.Lgs. non faccia molti passi avanti rispetto a quanto contenuto nella legge delega. A parte l’affermazione di carattere generale del comma 1, art. 3, che “I contratti devono essere informati a principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni, con riferimento ai beni forniti”, anche il D.Lgs. proibisce (comma 2, punto (k), art. 4) l’acquisto “di prodotti agricoli e alimentari attraverso il ricorso a gare e aste elettroniche a doppio ribasso”, ma non riprende quando è scritto al punto h) dell’art. 7 della legge delega che collega le pratiche commerciali sleali a “… condizioni contrattuali eccessivamente gravose… ” dovute alla vendita “…a prezzi palesemente al di sotto dei costi di produzione…”. Il D.Lgs. riporta poi al comma 5 dell’art. 4 il disposto della legge delega che stabilisce che “… un prezzo inferiore al 15% dei costi medi di produzione risultanti dall’elaborazione mensile dell’ISMEA rileva quale parametro di controllo della sussistenza di una pratica commerciale sleale”. Questo parametro di controllo esteso dal D.Lgs a tutti i contratti di cui all’art. 3, comma 1, può rappresentare il limite minimo di prezzo in tutti casi nei quali possa esserci il timore di ricadere in una pratica commerciale sleale. Il vero problema è che il MIPAAF dovrà fissare i criteri ai quali l’ISMEA dovrà attenersi per calcolare il livello del costo medio di produzione, criteri di non facile determinazione, perché può essere calcolato come media nazionale, della regione di riferimento, della circoscrizione economica del bene interessato, ecc., a cui si aggiunge che l’adozione del costo medio di produzione come prezzo minimo di riferimento non è detto che sia la soluzione migliore per garantire un prezzo equo al fornitore.
A questo proposito l’Autorità garante della concorrenza francese (DGCCRF), come scrivo nell’articolo de “L’Informatore Agrario”, ha osservato che il costo medio di produzione diventerebbe una sorta di prezzo minimo con una serie di effetti economici negativi. In primo luogo, impedirebbe a un produttore più efficiente di vendere a un prezzo più basso, frenando la spinta all’innovazione, in secondo luogo, la fissazione di un prezzo minimo potrebbe ostacolare il collocamento di stock in filiere dove si ripetono le sovrapproduzioni. Infine, la fissazione di un prezzo minimo potrebbe rendere meno competitivi i prodotti nazionali rispetto a quelli di importazione. Queste conseguenze potrebbero aversi anche se il costo medio venisse ridotto del 15%, come previsto dal D-Lgs.
Certamente l’approvazione del D.Lgs che dà completa attuazione alla direttiva che vieta pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare, rappresenta una importante tutela della parte più debole, che è sempre quella degli agricoltori, tuttavia bisogna sperare che lo strapotere della parte più forte e il timore del ricorso alle autorità di contrasto, tra cui un ruolo fondamentale è stato assegnato all’ICQRF, non renda silente anche questo quadro normativo, come di fatto è avvenuto con l’applicazione del famoso art. 62, che ha acceso un numero di ricorsi presso l’Autorità Garante della Concorrenza che superano di poco le dita di una mano. Nemmeno è da sperare che quanto disposto dal D.Lgs. sia la causa di un contenzioso ampio e continuo tra tutte le diverse fasi della filiera.

Corrado Giacomini

Economista – Comitato di Indirizzo del Corriere Ortofrutticolo

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