Secondo gli ultimi dati Fao rielaborati dal Cso di Ferrara il 94% della produzione di pere è concentrato nell’emisfero nord del mondo: 23,2 milioni di tonnellate, contro circa 1,5 milioni di tonnellate dell’emisfero sud. Escludendo la Cina, che coltiva pere Nashi, l’Europa da sola produce il 50% delle pere raccolte ogni anno nell’emisfero nord: 3 milioni e 100.000 tonnellate circa.
L’Italia è il primo produttore di pere a livello europeo con una media di 830.000 tonnellate: il 31% del totale prodotto nei 28 stati Ue (2,5 milioni di tonnellate), ed è il terzo esportatore in Europa. Il 65% delle pere italiane si coltiva in Emilia-Romagna. Un primato le cui fondamenta negli ultimi anni sono state minate da consumi interni in calo, concorrenza sempre più agguerrita dei produttori esteri, ritardi nell’intercettare le tendenze del mercato in termini varietali e mancanza di una cabina di regia che sia in grado di superare le difficoltà burocratiche e logistiche per conquistare nuove piazze commerciali.
I dati sulla produzione pericola sono stati esposti venerdì scorso a Ferrara dal direttore del Cso Elisa Macchi e da Marco Salvi, presidente di Fruitimprese, durante un convegno organizzato da Cso Servizi e dall’organismo interprofessionale pera (leggi news), un nuovo soggetto appena nato proprio per favorire la competitività del settore.
I principali competitor dell’Italia nel settore delle pere sono Belgio, Olanda, Portogallo e Spagna che nel raffronto 2012-2013 hanno fatto registrare incrementi produttivi rispettivamente del 29%, 46%, 70% e 10%. Nel 2013 la produzione italiana ha fatto segnare un +12% rispetto al 2012, pur evidenziando un -10% rispetto alla media del quadriennio 2008/2011. Per quanto riguarda le varietà, negli ultimi dieci anni è salita molto la coltivazione di Conference, Abate Fetel e Rocha sono cresciute poco, costanti William e Kaiser, in flessione le altre cultivar.
Attualmente l’Italia esporta solo il 22% della produzione pericola, un volume che resta stabile ma a un livello troppo basso rispetto ad altri frutti come le mele, la cui quota di export è del 50% o kiwi, addirittura al 70%. Le pere italiane vengono spedite in gran parte nei Paesi della Ue (87% dell’export totale nel 2013), privilegiando i mercati tradizionali come Germania, Francia, Austria e Libia. Nelle ultime due stagioni è cresciuta la Russia, ma c’è necessità di conquistare nuovi mercati, anche lontani. Anche in questo caso il raffronto con mele e kiwi fa capire bene qual è la direzione da prendere: mentre le mele italiane raggiungono 86 Paesi nel mondo e i kiwi 78, le pere oltrepassano solo 52 frontiere.
Di certo la burocrazia è un ostacolo alla conquista di nuovi mercati e le barriere fitosanitarie alzate da alcuni Stati sembrano più che altro forme di protezionismo per sbarrare la strada ai prodotti italiani. Ma nonostante le difficoltà, paesi come Belgio e Olanda movimentano volumi nettamente superiori a quelli italiani (anche triangolando prodotto) e recentemente appaiono in espansione le spedizioni della Rocha portoghese.
C’è poi un altro fattore che deprime il settore della pera. In Italia rispetto all’inizio del secolo, il consumo di frutta è sceso del 14%: da quasi 5 milioni di tonnellate del 2000 a circa 4,3 di oggi e la pera è uno dei frutti che ha risentito di più di questo calo. Rispetto a 13 anni fa gli italiani ne acquistano il 13% in meno. Ecco quindi che al comparto pericolo serve un rilancio dei consumi e uno sviluppo dei mercati, soprattutto quelli extra Ue. Per fare questo è fondamentale che le aziende si aggreghino per rendere più semplice l’internazionalizzazione e l’Interprofessione pera può aiutare. In particolare l’Italia può distinguersi puntando sull’Abate Fetel, varietà apprezzata dal mercato tedesco, russo e di recente importata negli Stati Uniti, dove non si coltiva. I relatori hanno spiegato come la pera italiana abbia anche bisogno di un’adeguata campagna di promozione e comunicazione per essere “spiegata” ai consumatori stranieri. (s.m.)
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