Nell’ultimo secolo, in Italia, alcune specie di frutta come l’albicocco, il ciliegio, il pesco, il pero, il mandorlo e il susino hanno registrato una perdita di varietà prossima al 75%. Le punte massime sono toccate da albicocco e pero, che registrano un tasso di sopravvivenza varietale di appena il 12%.
Nel solo Sud Italia, tra il 1950 e il 1983, è stato riscontrato che delle 103 varietà locali mappate durante il primo sopralluogo, solo 28 venivano ancora coltivate poco più di trent’anni dopo. A livello più generale, uno studio della FAO stima che tra il 1900 e il 2000 sia andato perduto il 75% della diversità delle colture agricole. Inoltre, l’organizzazione delle Nazioni Unite prevede che entro il 2055, a causa del cambiamento climatico, scompariranno tra il 16 e il 22% dei parenti selvatici per colture importanti come arachidi, patate e fagioli.
Sono alcuni dati che testimoniano l’importanza di tutelare l’ortofrutta e i prodotti agricoli della nostra storia, per salvaguardare la cultura italiana e al tempo stesso venire incontro all’esigenza, sempre più sentita, di mangiare cibi sani, privi di alterazioni e veleni. Questi argomenti sono stati al centro del seminario “Frutti del passato per un futuro sostenibile” organizzato dall’ISPRA, che si è tenuto al Ministero delle Politiche Agricole e Forestali.
Nell’occasione i massimi esperti italiani ed internazionali di salvaguardia della biodiversità agraria e recupero di varietà in via di estinzione hanno discusso su come recuperare le colture perdute in una prospettiva futura, di grande utilità sia per l’aspetto alimentare e scientifico che per quello economico e sociale. Per frutti del passato, antichi e dimenticati, si intendono quelli che negli ultimi 50 anni hanno conosciuto un lento e silenzioso abbandono, per l’affermazione della frutticoltura moderna o industriale. La sottoutilizzazione delle colture porta in particolare un impoverimento culturale, tanto più in Italia, Paese che per i prodotti di nicchia ha un ruolo importante con oltre 200 produzioni certificate che rappresentano più del 20% del totale europeo.
Le indicazioni geografiche sono una dimostrazione del legame tra territorio, cultura e agricoltura, ma va notato che la maggior parte della biodiversità coltivata e dei saperi tradizionali ad essa associati sono custoditi in una categoria di aziende in genere condotte da persone sopra i 65 anni. Finora, le attività di “recupero” delle specie hanno portato a valorizzarne diverse in funzione di mercati particolari.
Ad esempio, per l’albicocco si possono menzionare le varietà Tonda di Castigliole (Piemonte), Valleggia (Liguria), Valvenosta (Alto Adige) e Cibo del Paradiso (Puglia); per il ciliegio le cultivar Mora di Cazzano (Veneto), Durone Nero I, II e III (Emilia Romagna), Ravenna (Lazio), Della Recca (Campania) e Ferrovia (Puglia); per il melo la Limoncella (Lazio e Campania), la Mela Rosa (Italia Centrale), l’Appio (Sicilia e Sardegna), la Campanino (Emilia Romagna) e la Decio (Veneto). L’ISPRA fornisce il suo contributo pubblicando una serie di quaderni dedicati a “Frutti dimenticati e biodiversità recuperata. Il germoplasma frutticolo e viticolo delle agricolture tradizionali italiane”.
I testi analizzano i casi di studio relativi a diverse regioni: Puglia, Emilia Romagna, Calabria, Trentino-Alto Adige, Lombardia e Isole della Sicilia. In questa occasione, sono state presentate le pubblicazioni dell’ISPRA in collaborazione con ARPA Emilia-Romagna, relative ai frutti di quest’ultima regione. (fonte: AdnKronos)