LUCI E OMBRE DELL’INTESA GDO-MONDO AGRICOLO SULLE PRATICHE SLEALI. LO SCOGLIO DEL “PREZZO MINIMO”

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Ho letto il testo dell’intesa sulla concorrenza sottoscritto dalle organizzazioni di rappresentanza delle imprese del comparto distributivo e del mondo agricolo nel “Corriere Ortofrutticolo” del 3 marzo con il titolo ”Pratiche sleali, ultimo giro di boa, compromesso onorevole, adesso spetta alla politica”.

Dico la verità, molte volte ho visto questi giri di boa tra organizzazioni della distribuzione e del mondo agricolo che non hanno mai portato a niente, ma questa volta siamo ormai a giorni (speriamo!) all’approvazione da parte della Camera della legge di delega al Governo per il recepimento delle direttive comunitarie 2019-2020, che all’art. 7 fissa i principi e i criteri per l’attuazione alla direttiva (UE) 2019/633 in materia di pratiche sleali nella filiera agro-alimentare. Come è noto, alla legge-delega devono seguire i decreti delegati e allora pare giusta la conclusione “adesso spetta alla politica”.
Confrontando il testo dell’intesa con l’art. 7 del disegno di legge, si può rilevare che gran parte dei punti dell’accordo sono già accolti. Viene vietato, infatti, il ricorso a gare e aste elettroniche a doppio ribasso, si prevede la revisione della disciplina delle vendite sottocosto di prodotti alimentari freschi e deperibili nel caso che siano rimasti invenduti o se si tratta di operazioni concordate in forma scritta, aggiungendo il divieto che sia imposto unilateralmente il costo o la perdita al fornitore. Altri punti accolti riguardano la garanzia dell’anonimato per le denunce relative alle pratiche sleali, la possibilità di ricorrere a meccanismi di mediazione e risoluzione alternativi (quali ?) per prevenire il contenzioso tra le parti, la designazione dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF) quale autorità nazionale di contrasto deputata all’attività di vigilanza.
Per il resto, l’art. 7 tende soprattutto a migliorare l’applicazione dell’art. 62, D.L. 24 gennaio 2012, n. 27, prevedendo, tra l’altro, l’inserimento tra le pratiche commerciali sleali la vendita di prodotti agricoli e alimentari realizzata a condizioni contrattuali eccessivamente gravose, compresa la vendita a prezzi “palesemente” al di sotto dei costi dei costi di produzione e riservandosi di definire anche puntuali condizioni per il commercio elettronico. Alla luce dello sviluppo dell’e-commerce, quest’ultimo impegno pare particolarmente utile, se troverà accoglimento nel decreto delegato di attuazione. L’art. 7 al punto q) stabilisce poi, che si può considerare un parametro di controllo della sussistenza di condizioni contrattuali particolarmente gravosa, e quindi di una pratica commerciale sleale, se il prezzo pagato dall’acquirente è inferiore del 15% al costo medio di produzione calcolato dall’ISMEA. Nulla è scritto su questo punto nell’intesa tra le imprese della distribuzione e del mondo agricolo.
E’ da un pezzo che la politica mira a regolare per legge il prezzo riconosciuto ai produttori agricoli, certamente la parte più debole della filiera. Come il lettore ricorderà, già l’art. 62, vietava di imporre direttamente o indirettamente condizioni di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose. Successivamente, l’art. 10 quater, della legge 21 maggio 2019, n. 44, “Disciplina dei rapporti commerciali nell’ambito delle filiere agroalimentari”, ha stabilito che il pagamento da parte dell’acquirente di un prezzo “significativamente” inferiore al costo medio di produzione, calcolato mensilmente dall’ISMEA, costituisce una pratica commerciale sleale, con sanzioni fino al 10% del fatturato. Nessuno, da quando è stata approvata, ha chiesto l’applicazione di questa legge anche perché prevedeva, come fa ora l’art. 7, il ricorso all’Antitrust solo se nel contratto scritto mancava o il prezzo o la quantità o la qualità o i termini di pagamento o le modalità di consegna, tutte clausole essenziali per la validità del contratto. Inoltre, l’ISMEA non ha mai cominciato a calcolare mensilmente i costi medi (quali ?), lo fa ma con scopi puramente informativi, anche perché il MIpaaf non ha mai approvato i criteri a cui doveva attenersi. Ci siamo già soffermati su questa storia di prezzi minimi, prezzi giusti o prezzi equi (Corriere Ortofrutticolo, marzo 2020) mettendo in evidenza la difficoltà di regolare per legge la formazione del prezzo di mercato, tuttavia bisogna riconoscere che, quanto stabilito al punto q) dell’art. 7, può essere considerato il meno peggio. Stabilendo, infatti, che il pagamento di un prezzo inferiore del 15% ai costi medi di produzione risultanti dall’elaborazione dell’ISMEA è da considerare quale parametro di controllo della sussistenza di una pratica commerciale sleale, lo scarto concesso è abbastanza ampio. E’ possibile, tuttavia, che sia causa di frequenti contenziosi di fronte all’autorità Antitrust o all’ICQRF.
Non è facile, infatti, stabilire cosa si intende per costo medio (della coltura, dell’azienda, dell’area ?); inoltre per un fornitore il prezzo può essere inferiore del 15% al suo costo di produzione data la tecnologia applicata, mentre per un altro, che adotta una tecnologia più avanzata, il prezzo riconosciuto potrebbe non essere “eccessivamente” gravoso. Non pare irrilevante poi l’osservazione dell’Autorità Antitrust francese che, per una disposizione analoga, ha rilevato che la fissazione di un prezzo minimo, come sarebbe il costo medio di produzione ridotto del 15%, potrebbe spingere all’acquisto su mercati esteri a prezzi più convenienti.
La difesa della parte più debole della filiera, gli agricoltori, è certamente necessaria e l’applicazione della direttiva sulle pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese della filiera agricola e alimentare mi pare già un significativo passo avanti; non so se la fissazione di un prezzo minimo per legge possa essere una ulteriore garanzia o piuttosto la causa di nuovi contenziosi tra le parti o la scusa per trovare il modo di aggirarla. In ogni caso, meglio questa norma, piuttosto che lo scandalo di angurie vendute a 1 centesimo/kg o olio extravergine a 2,99 Euro/l.
Questa mattina al primo telegiornale ho sentito che sono stati effettuati altri nove arresti per il mancato rispetto della legge sul caporalato. Forse nell’intesa tra le imprese della distribuzione e del mondo agricolo non sarebbe stato male inserire l’impegno che il consumatore deve avere la garanzia che quello che compra non proviene da quelle campagne.

Corrado Giacomini

economista agrario

Comitato di indirizzo del Corriere Ortofrutticolo

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