LUCI E OMBRE DEL DECRETO SULLE PRATICHE SLEALI. SPERIAMO FUNZIONI MEGLIO DEL “VECCHIO” ART.62

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Finalmente è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il D.Lgs. 8 novembre 2021, n. 198, che dà attuazione alla direttiva (UE) 2019/633 in materia di pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare e all’art. 7 della legge delega n. 53/2021, che la recepiva.

Malgrado fossero notevoli le attese del mondo agricolo, l’approvazione del decreto legislativo è stata piuttosto travagliata; infatti è entrato per ben due volte in Consiglio dei Ministri, la prima alla fine di luglio e poi a primi di novembre, superando di poco il termine ultimo, 1° novembre, fissato dalla direttiva.
Nel “Corriere Ortofrutticolo” mi sono interessato più volte dell’argomento seguendo le bozze disponibili, ma questa volta ho atteso la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, mentre le organizzazioni professionali agricole vantavano successi ad ogni bozza per le misure che, a dir loro, erano riuscite a far inserire.
Vediamo se questi successi sono presenti anche nel testo ufficiale. Al punto e) dell’art. 2 viene precisato che non costituisce “contratto di cessione”, quindi non c’è l’obbligo della forma scritta, nel caso dei conferimenti di prodotti agricoli ed alimentari da parte di imprenditori agricoli e ittici a cooperative di cui essi sono soci o ad organizzazioni di produttori. Certamente questa è una disposizione che riconosce la specificità del rapporto tra soci e cooperativa regolato ab origine dallo statuto, ma a mio avviso estenderla anche alle organizzazioni di produttori (OP) è una forzatura che, ad esempio, nella prima bozza del decreto era stata evitata. Proprio secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 102/2005 le OP devono adottare una forma societaria. Se si tratta di una forma cooperativa nulla quaestio, ma se si tratta di una società di capitali immagino che sia piuttosto difficile qualificare “conferimenti” le cessioni di prodotto dei soci alla OP.
Il comma 4 dell’art. 3 stabilisce che la durata dei contratti di cessione non può essere inferiore a dodici mesi “….salvo deroga motivata, anche in ragione della stagionalità dei prodotti oggetto di cessione concordata dalle parti contraenti o risultante da un contratto stipulato con l’assistenza delle rispettive organizzazioni professionali maggiormente rappresentative a livello nazionale…..”.

A parte il fatto che mi sembra eccessivo il ricorso alle organizzazioni professionali maggiormente rappresentative a livello nazionale per concordare una durata del contratto inferiore a dodici mesi, in quanto si tratta di prodotti agricoli e alimentari normalmente contrattati sul mercato, l’attuale testo del comma 4 dell’art. 3, concedendo l’alternativa che la durata del contratto possa essere ridotta con accordo motivato tra le parti, svuota di fatto la possibilità del ricorso all’assistenza delle organizzazioni professionali agricole.
Anche il comma 5 riconosce alle organizzazioni professionali agricole “maggiormente rappresentative a livello nazionale” la possibilità di concludere “accordi quadro” le cui condizioni contrattuali sono fatte salve con riferimento a quanto disposto agli art. 4 e 5 sulle pratiche commerciali sleali. Qui mi pare che il Governo perda l’occasione di definire con chiarezza i soggetti che possono stipulare degli accordi collettivi nella filiera agroalimentare. E’ vero che il punto a) dell’art. 1 nel definire l’ ”accordo quadro” dichiara salva la definizione di “contratto quadro” del D. Lgs. n. 102/2005 stipulato tra organizzazioni di produttori agricoli e delle imprese di trasformazione, distribuzione e commercializzazione. Ma tra gli accordi collettivi possono essere compresi anche gli accordi interprofessionali e i contratti tipo di cui all’art. 3 del D.L. n.51/2015, noto come “Pacchetto Latte”. Ovviamente l’area sulla quale possono intervenire tali accordi, in particolare sui prezzi, deve essere compatibile con la nostra legislazione Antitrust e con la regolamentazione comunitaria, ma la normativa in corso di applicazione della nuova PAC 2023/2027 pare allargare notevolmente il ruolo delle OP e delle Organizzazioni interprofessionali (OI) nella gestione del mercato. Speriamo che Il Governo possa avere una nuova occasione per regolare questa materia e chiarire quale è il ruolo che vuole assegnare ad OP e OI nell’organizzazione della nostra agricoltura.
L’art. 5 “Pratiche commerciali sleali”, che completa quelle definite dalla direttiva, temo che sarà causa di un ricco contenzioso perché il carattere sleale delle pratiche quasi sempre non è correlato a parametri certi ma è lasciato alla valutazione dell’Autorità di contrasto (ICQRF), fatte salve le funzioni dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e, non è detto, che il contenzioso possa arrivare fino all’Autorità giudiziaria. Ad esempio, il punto b) dell’art. 5 stabilisce che sono vietate le pratiche commerciali che prevedono “l’imposizione di condizioni eccessivamente gravose per il venditore, ivi compresa quella di vendere prodotti agricoli e alimentari a prezzi al di sotto dei costi di produzione”. Come appare chiaro la presenza di condizioni eccessivamente gravose può essere dichiarata solo dall’Autorità di contrasto (ICQRF), perfino se il prezzo concordato è al di sotto dei costi di produzione, perché il decreto non fissa nemmeno a che costo di produzione deve essere fatto riferimento. L’art. 7 delle legge delega al punto q) stabiliva che la fissazione di un prezzo inferiore del 15% ai costi medi di produzione elaborati dall’ISMEA poteva essere considerato un parametro di controllo, ripeto, un parametro di controllo rispetto alla presunzione della presenza di una pratica commerciale sleale in mancanza di una delle condizioni previste dall’art. 168, paragrafo 4, del Reg. 1308/2013 (prezzo, quantità, qualità, durata del contratto, modalità di pagamento e consegna, cause di forza maggiore). Tale disposizione, meno il riferimento al 15% e alle condizioni dell’art. 168, era stata inserita nella prima bozza sottoposta all’approvazione del Consiglio dei Ministri, era stata mantenuta nella seconda, sempre precisando che costituiva un parametro di controllo ai fini dell’accertamento della presenza di pratiche commerciali sleali.
Nel testo pubblicato la vendita di prodotti agricoli e alimentari a prezzi al di sotto dei costi di produzione diventa causa di condizioni contrattuali eccessivamente gravose ma, in mancanza di parametri certi, dovrebbe essere valutata dall’Autorità di contrasto (ICQRF) in sede di contenzioso. All’ISMEA fa riferimento solo l’art. 7 che stabilisce che nel caso di vendite sottocosto l’accertamento del prezzo può avvenire anche sulla base dei costi medi di produzione rilevati dall’ISMEA.
L’emanazione di successivi Decreti Ministeriali potrà colmare alcune lacune che mi sono permesso di rilevare, tuttavia bisogna riconoscere che l’elenco delle pratiche commerciali sleali, di cui il decreto legislativo stabilisce il divieto, è una grande conquista di tutto il mondo agricolo europeo, inoltre il nostro decreto legislativo elimina finalmente le aste a doppio ribasso e regola le vendite sottocosto, meglio di quanto avveniva in precedenza, e impone una maggiore trasparenza nei rapporti tra acquirente e fornitore (ad esempio, imponendo la specificazione in contratto delle condizioni fuori fattura) anche quando la definizione dei rapporti contrattuali è lasciata all’autonomia delle parti. Speriamo che, grazie all’attivismo responsabile delle nostre organizzazioni professionali e delle altre forme associative del mondo agricolo, le misure della direttiva abbiano una efficacia maggiore di quanto l’ha avuta il famoso art. 62…

Corrado Giacomini

economista agrario, Comitato di indirizzo del Corriere Ortofrutticolo

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