Se la Spagna fa più di tre volte il nostro export di ortofrutta fresca un motivo ci sarà. Sono più organizzati; si muovono meglio a Bruxelles; la politica e le istituzioni sono più sensibili ai loro bisogni; fanno aggregazioni efficienti e non solo per lucrare i contributi comunitari dell’OCM; sanno aprire e presidiare meglio i nuovi mercati; sanno approfittare delle debolezze e disorganizzazione altrui. Le ragioni possono essere una sola o un po’ di tutte queste assieme. Sta di fatto che quei 19 miliardi circa di export ortofrutticolo contribuiscono a un Pil spagnolo che è cresciuto nel 2023 del 2,5% (il nostro +0,7) e a un export agroalimentare (oltre 70 miliardi di euro) molto superiore al nostro (64 miliardi) benché la Spagna non disponga delle nostre ‘eccellenze’ e del made in Italy. Il discorso cambia un po’ se oltre al fresco guardiamo anche al trasformato, passate di pomodoro, conserve vegetali, succhi, ecc. Qui il nostro exportsfiora i 12 miliardi di euro (quasi il doppio del vino) e la distanza con gli spagnoli si riduce. E non a caso il saldo commerciale positivo dei nostri scambi agroalimentari con l’estero (fonte Ismea) è di circa 2,5 miliardi per l’ortofrutta trasformata e di appena 400 milioni circa per il fresco, con tendenza a calare per il continuo (e quasi strutturale) aumento dell’import di fresco. Sintesi del ragionamento: dimentichiamo troppo spesso quello che ci hanno insegnato a scuola o all’università, cioè che l’Italia è un grande paese trasformatore di materie prime. Che spesso non ha perché non le produce (per tante ragioni, strutturali, territoriali e non), quindi le deve importare.
Questo non vuol dire che dobbiamo rassegnarci a non produrre o a subire politiche comunitarie che volevano mandare in pensione gli agricoltori per trasformarli in semplici guardiani dell’ambiente, ogni giorno alle prese con una asfissiante burocrazia comunitaria per lucrare qui e là dai vari regolamenti aiuti e contributi per la transizione ecologica e la sostenibilità ambientale. Bisogna tornare a produrre e al tempo stesso non rinunciare agli obiettivi del Green Deal, perché il cambiamento climatico è innegabile. E qui ricerca, innovazione e le biotecnologie ‘buone’ come le TEA devono venirci in soccorso, e troppo tempo si è perso nel dibattito comunitario e dietro ai teoremi dell’ex presidente della Commissione UE Franz Timmermans, che voleva mettere un cappio ambientale al collo agli agricoltori: o fate così o così. Punto. Scatenando la rabbia degli agricoltori che hanno invaso coi loro trattori le strade di mezza Europa. La nuova Commissione Ue che uscirà dalle urne del 9 giugno – c’è da scommettere – sarà molto diversa da quella uscente e anche la PAC dovrà essere necessariamente rimodellata.
L’Europa che verrà – dice una analisi di Confagricoltura – “non può più permettersi di avere gli standard ambientali più avanzati su scala mondiale, di investire molto meno per la diffusione delle innovazioni rispetto a Stati Uniti e Cina, di non applicare la reciprocità delle regole nei confronti delle importazioni dai Paesi terzi. Questo modello è stato superato dagli eventi e alla lunga non può reggere. Il rischio è quello di una crisi di competitività tale da compromettere i livelli raggiunti di reddito, occupazione e benessere sociale”. Al tempo stesso non deve cadere nella tentazione del protezionismo, che sarebbe una iattura per gli interessi strategici dell’Europa (e dell’Italia). La recente edizione di Macfrut come fiera di successo a vocazione internazionale (per non parlare di Cibus) conferma ancora una volta che l’ortofrutta è un comparto davvero globale, aperto al mondo. Non a caso le imprese della nostra ortofrutta sono i primi espositori a Fruit Logistica e i secondi a Fruit Attraction, a conferma di una vocazione ‘fisiologica’ all’internazionalizzazione. Per questo l’apertura di nuovi mercati per i nostri prodotti è una strada obbligata, ineludibile per mantenere capacità produttiva, superfici, occupazione e crescita in tante aree del Belpaese dove all’ortofrutta non ci sono alternative colturali.
Le cifre non mentono: produciamo 24 milioni di tonnellate di ortofrutta (dice Ismea) e ne esportiamo più o meno 3,5 milioni. La sproporzione tra i due valori parla da sola: l’export per noi è vitale. Una volta eravamo i fornitori dell’Europa, adesso lo è la Spagna. Ma noi con la nostra qualità, le nostre tecnologie, la nostra innovazione possiamo ancora dire la nostra, puntare su nuovi prodotti, cercare e aprire nuovi mercati. Per troppo tempo ci siamo addormentati sugli allori. Le imprese hanno bisogno di recuperare competitività; e la politica deve fare il suo dovere: aiutarle.
L’EUROPA CHE VERRÀ DEVE CAMBIARE, MA SENZA CHIUDERSI NEL PROTEZIONISMO
Se la Spagna fa più di tre volte il nostro export di ortofrutta fresca un motivo ci sarà. Sono più organizzati; si muovono meglio a Bruxelles; la politica e le istituzioni sono più sensibili ai loro bisogni; fanno aggregazioni efficienti e non solo per lucrare i contributi comunitari dell’OCM; sanno aprire e presidiare meglio i nuovi mercati; sanno approfittare delle debolezze e disorganizzazione altrui. Le ragioni possono essere una sola o un po’ di tutte queste assieme. Sta di fatto che quei 19 miliardi circa di export ortofrutticolo contribuiscono a un Pil spagnolo che è cresciuto nel 2023 del 2,5% (il nostro +0,7) e a un export agroalimentare (oltre 70 miliardi di euro) molto superiore al nostro (64 miliardi) benché la Spagna non disponga delle nostre ‘eccellenze’ e del made in Italy. Il discorso cambia un po’ se oltre al fresco guardiamo anche al trasformato, passate di pomodoro, conserve vegetali, succhi, ecc. Qui il nostro export sfiora i 12 miliardi di euro (quasi il doppio del vino) e la distanza con gli spagnoli si riduce. E non a caso il saldo commerciale positivo dei nostri scambi agroalimentari con l’estero (fonte Ismea) è di circa 2,5 miliardi per l’ortofrutta trasformata e di appena 400 milioni circa per il fresco, con tendenza a calare per il continuo (e quasi strutturale) aumento dell’import di fresco. Sintesi del ragionamento: dimentichiamo troppo spesso quello che ci hanno insegnato a scuola o all’università, cioè che l’Italia è un grande paese trasformatore di materie prime. Che spesso non ha perché non le produce (per tante ragioni, strutturali, territoriali e non), quindi le deve importare.
Questo non vuol dire che dobbiamo rassegnarci a non produrre o a subire politiche comunitarie che volevano mandare in pensione gli agricoltori per trasformarli in semplici guardiani dell’ambiente, ogni giorno alle prese con una asfissiante burocrazia comunitaria per lucrare qui e là dai vari regolamenti aiuti e contributi per la transizione ecologica e la sostenibilità ambientale. Bisogna tornare a produrre e al tempo stesso non rinunciare agli obiettivi del Green Deal, perché il cambiamento climatico è innegabile. E qui ricerca, innovazione e le biotecnologie ‘buone’ come le TEA devono venirci in soccorso, e troppo tempo si è perso nel dibattito comunitario e dietro ai teoremi dell’ex presidente della Commissione UE Franz Timmermans, che voleva mettere un cappio ambientale al collo agli agricoltori: o fate così o così. Punto. Scatenando la rabbia degli agricoltori che hanno invaso coi loro trattori le strade di mezza Europa. La nuova Commissione Ue che uscirà dalle urne del 9 giugno – c’è da scommettere – sarà molto diversa da quella uscente e anche la PAC dovrà essere necessariamente rimodellata.
L’Europa che verrà – dice una analisi di Confagricoltura – “non può più permettersi di avere gli standard ambientali più avanzati su scala mondiale, di investire molto meno per la diffusione delle innovazioni rispetto a Stati Uniti e Cina, di non applicare la reciprocità delle regole nei confronti delle importazioni dai Paesi terzi. Questo modello è stato superato dagli eventi e alla lunga non può reggere. Il rischio è quello di una crisi di competitività tale da compromettere i livelli raggiunti di reddito, occupazione e benessere sociale”. Al tempo stesso non deve cadere nella tentazione del protezionismo, che sarebbe una iattura per gli interessi strategici dell’Europa (e dell’Italia). La recente edizione di Macfrut come fiera di successo a vocazione internazionale (per non parlare di Cibus) conferma ancora una volta che l’ortofrutta è un comparto davvero globale, aperto al mondo. Non a caso le imprese della nostra ortofrutta sono i primi espositori a Fruit Logistica e i secondi a Fruit Attraction, a conferma di una vocazione ‘fisiologica’ all’internazionalizzazione. Per questo l’apertura di nuovi mercati per i nostri prodotti è una strada obbligata, ineludibile per mantenere capacità produttiva, superfici, occupazione e crescita in tante aree del Belpaese dove all’ortofrutta non ci sono alternative colturali.
Le cifre non mentono: produciamo 24 milioni di tonnellate di ortofrutta (dice Ismea) e ne esportiamo più o meno 3,5 milioni. La sproporzione tra i due valori parla da sola: l’export per noi è vitale. Una volta eravamo i fornitori dell’Europa, adesso lo è la Spagna. Ma noi con la nostra qualità, le nostre tecnologie, la nostra innovazione possiamo ancora dire la nostra, puntare su nuovi prodotti, cercare e aprire nuovi mercati. Per troppo tempo ci siamo addormentati sugli allori. Le imprese hanno bisogno di recuperare competitività; e la politica deve fare il suo dovere: aiutarle.
Lorenzo Frassoldati
l.frassoldati@alice.it
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