LA PERA ITALIANA SECONDO SOLI, UNA STORIA DI OCCASIONI PERDUTE

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 E’ toccato a Stefano Soli (nella foto), della direzione marketing e sviluppo del Gruppo Alegra, fare il punto domenica, nello stabilimento Agrintesa di Castelfranco Emilia, sulla produzione e il mercato della pera. Una relazione descrittiva ma nello stesso tempo ricca di spunti interessanti, che ha costituito la premessa alla presentazione del progetto Granata di cui riferiamo a parte (leggi news).

L’Italia – ha ricordato Soli – con oltre 700 mila tonnellate di pere ha una posizione di leadership produttiva a livello mondiale: è al terzo posto nel mondo (dopo Cina e USA) e rappresenta oltre il 30% della produzione europea. L’Italia produce oltre il 95% delle pere Abate nel mondo e in Emilia Romagna si producono quasi i 2/3 delle pere italiane. La pera è il quarto frutto più consumato dalle famiglie italiane dopo mele, arance e banane. Ma non è un frutto apprezzato dai giovani. Le pere vengono consumate (oltre il 65%) da persone «over 55», una fascia di età in aumento, attenta alla sana alimentazione e che consuma più frutta e verdura. Le nuove generazioni non consumano pere; è un problema e tuttavia significa che un rilancio della pera avrebbe notevoli possibilità di sviluppo. Non solo. Ma essendo la pera un frutto dall’elevatissimo indice di penetrazione, un frutto della tradizione, conosciutissimo, quindi un prodotto da ‘mass-market’, l’adozione di opportune strategie porterebbe senza sforzi enormi a un incremento dei consumi.

Manca in assoluto una marca alla quale dovrebbero accompagnarsi investimenti mirati e continuativi in comunicazione a sostegno dei consumi. La pera ha degli ottimi valori nutrizionali, poche calorie (35 Kcal x 100 grammi) e ha proprietà funzionali grazie al contenuto in fibre. Soli ha mostrato in una slide Alessia Marcuzzi che promuove Activia, il ‘bifidus di oggi’, e grazie ad un azzeccato fotomontaggio ha creato una slide successiva in cui la Marcuzzi tiene una pera in mano: il ‘bifidus di domani’. La pera dunque fa bene ma è anche estremamente versatile e può essere consumata cruda e cotta sia come frutta che come dessert.

Questi sono dunque, in sintesi, alcuni presupposti su cui costruire il rilancio di un prodotto che risente più di altri del calo dei consumi (-30% dal 2000 al 2013 contro il -28 dell’uva da tavola, il -26 delle mele, il -20 delle banane, il +57% del kiwi, il +128 della frutta esotica). Alla base della attuale fragilità commerciale della pera c’è che la conservazione e trasformazione delle pere avviene in troppi centri in molti casi di dimensioni non adeguate; gli operatori commerciali sono molti e concorrenti tra loro e l’offerta è troppo polverizzata. Molto prodotto delle aziende più grandi viene venduto ‘in natura’ e va ad alimentare altri operatori commerciali concorrenti sugli stessi mercati. Il grande numero e la piccola dimensione degli operatori non permette di sviluppare in maniera organica e strategica il mercato dell’export (la quota export è del 22% contro una quota del 39% delle mele e addirittura dell’83% del kiwi) e i nuovi mercati, oltre che non agevolare quelle economie di scala che dovrebbero essere alla base di un marchio commerciale riconoscibile presso il largo consumo.

Le conseguenze di tutto ciò sono note agli operatori e nello stesso tempo dipendono da loro perché il prodotto c’è ed è buono. Così l’Italia si è fatta soffiare il mercato britannico dal Portogallo, soffre l’efficienza commerciale del Belgio un po’ ovunque, non si riesce ad invertire il trend negativo dei consumi interni e a remunerare gli stessi produttori in modo adeguato perché la competizione esasperata, giocando al ribasso dei prezzi, li danneggia. Uscirne si può e la ricetta – Soli non lo ha detto ma lo ha fatto capire – è quella su cui sta lavorando un uomo lanciato col paracadute da un altro pianeta, il pianeta delle mele. Una sorta di ‘liberatore’ perché il mondo delle pere è prigioniero di se stesso, ha bisogno di ‘qualcuno da fuori’. (a.f.)

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