PER LA CRISI DELL’ORTOFRUTTA PIÙ CHE “PATTI” SERVE FARE PIÙ QUALITÀ E PUNTARE SULLA DIMENSIONE D’IMPRESA

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Ho seguito “Il valore dell’ortofrutta” , webinar di CIA con focus su distribuzione e rapporto con l’estero. Un webinar molto molto interessante a cui si erano collegate non più di 40 persone, ma che fortunatamente è possibile trovare su Yutube, dove è stato oggetto finora di più di 200 visualizzazioni. Al webinar è seguito il comunicato della CIA e ne hanno dato ampio spazio il “Corriere Ortofrutticolo” e altri notiziari.

Per cui non ci dovrebbe essere nulla da aggiungere, ma è sull’impostazione data alle notizie che mi permetto di fare qualche osservazione. In tutte, viene attribuito ripetutamente alla difficoltà logistiche e alla burocrazia la principale causa della perdita di competitività della nostra ortofrutticoltura sia sul mercato interno che su quello estero. La soluzione sarebbe quindi un patto di “sistema” che riesca ad abbattere questi due ostacoli. Prima di tutto, a mio avviso, non può essere la soluzione un patto solo per il “sistema” ortofrutticolo, perché questi sono problemi che gravano su tutto il “sistema” Italia e nemmeno gli 8OO milioni stanziati dal PNRR per il “Piano logistico per i settori agroalimentare, floricoltura e vivaismo”, possono risolvere il problema se non faranno parte di un piano generale di ammodernamento e potenziamento delle nostre infrastrutture viarie, ferroviarie, portuali e aereoportuali. A proposito poi del PNRR, dopo tanta fatica per arrivare alla sua approvazione, ora è diventato la comoda scusa per rinviare tutto al futuro, perché è con esso che si spera di riuscire a fare tutto quello che non si è fatto finora.
Tutti gli interventi alla tavola rotonda sono stati molto interessanti ma, a mio avviso due hanno denunciato chiaramente le vere cause della perdita di competitività della nostra ortofrutticoltura: quello di Claudio Mazzini, responsabile freschissimi Coop, che ha affermato che la spesa per ortofrutta nella grande distribuzione sta calando perché, tra l’altro, il consumatore non è spinto ad acquistare la frutta nazionale giudicata “mediamente non buona”; l’altro intervento è quello di Renzo Piraccini che ha sostenuto che senza una adeguata dimensione le imprese dell’ortofrutta sono destinate a perdere la sfida competitiva per i maggiori costi e per la minore capacità commerciale in termini di servizi al cliente e di tenuta sul prezzo, a fronte di una domanda sempre più concentrata e aperta al mercato globale.
Anche dalla lettura delle slides dell’Osservatorio Ortofrutta di Nomisma, presentate da Denis Pantini, emerge lo stato di crisi della nostra ortofrutticoltura (nelle analisi ho escluso il 2020 per l’eccezionalità degli effetti della pandemia). In dieci anni, tra il 2009 e il 2019 i consumi domestici di ortofrutta sono diminuiti, a prezzi costanti (-6%) più dei consumi totali (-3%) in alimentari e bevande e nel corso degli ultimi cinque anni il nostro export di ortofrutta fresca è diminuito in quantità di circa il 18% (CSO Italy). Negli stessi dieci anni la SAU coltivata a nettarine è diminuita del 40%, quella a pere del 24% e ad arance del 19%, mentre la superficie a mele è rimasta invariata e quella a kiwi è aumentata del 8%. Per fortuna (sic!) che è aumentata del 2000% la SAU a melograno e del 50% quella a piccoli frutti e che è aumentato negli ultimi cinque anni l’import di avocado del 160% e di banane del 18%.
La contrazione delle superfici investite nelle principali specie di frutta è assolutamente comprensibile se si confronta il trend del valore della produzione agricola a prezzi di base, aumentato a valori correnti tra il 2009 e il 2019 del 16% mentre quello del settore ortofrutticolo si è fermato a +11%. Meno redditività porta inevitabilmente a meno investimenti in ortofrutta, soprattutto nelle specie più critiche. Nello stesso tempo, la tenuta delle superfici di altre specie (mele e kiwi) è conseguenza della presenza in questi comparti di poche grandi aggregazioni d’impresa, impegnate anche sul piano delle innovazioni varietali e dei marchi di prodotto, che sono riuscite a tenere sia sul mercato nazionale che su quello estero Questi dati sono molto preoccupanti. Altro che ortofrutta settore trainante della nostra agricoltura! E’ invece un settore in grave crisi che ha perso capacità competitiva perfino sul mercato nazionale (da non dimenticare, che questo assorbe l’85% della produzione interna) e anche su quello estero è lontano mille miglia dalla potenza dell’offerta spagnola. Questi dati confermano i giudizi di Claudio Mazzini e di Renzo Piraccini soprattutto se si considera che dopo 60 anni dall’avvio dell’esperienza delle organizzazioni di produttori nel nostro Paese (Reg, n. 159/66) e delle ripetute OCM ortofrutta le OP ortofrutticole sono passate da 274 nel 2009 a 297 nel 2019 e il valore della produzione ortofrutticola commercializzata da OP sul totale del settore è aumentata, nello stesso periodo, dal 39,2% al 42,3%. E’ ancora troppo poco, e troppo piccole è la maggioranza delle nostre OP che, pur riunite in parte in associazioni di OP (AOP), non sono riuscite a trasformare la gestione burocratica degli aiuti delle OCM (circa 250 milioni alla volta) in forza contrattuale e successo commerciale. Ad oggi, non sono state capaci nemmeno a dare vita a una Organizzazione Interprofessionale (OI), che dimostri di essere punto di riferimento del settore. Se poi consideriamo, che l’altro 58% della produzione non è aggregato in OP è comprensibile che molti operatori dell’ortofrutta non possano esprimere una offerta capace di soddisfare, per quantità e qualità, la domanda che viene dalla grande distribuzione organizzata nazionale ed estera.
Se la frutta è “mediamente non buona” bisogna farla diventare “buona” adottando una pianificazione della produzione non dominata dalle pratiche industriali, ma dall’obiettivo della qualità organolettica del prodotto al punto vendita. Se la qualità è il requisito necessario per spingere il consumatore ad acquistarla, la dimensione d’impresa è il requisito fondamentale perché, trattando delle commodity (e l’ortofrutta è una commodity) le economie di scala raggiungibili possono consentire all’impresa di ottenere spazi di marginalità nel prezzo. Ma non solo, Piraccini ha fatto l’esempio delle mele, dove operano alcune imprese di grandi dimensioni con tecnologie molto avanzate e che puntano a superare i limiti della commodity investendo in brand varietali e in marchi di prodotto. Queste imprese grazie alle economie di scala e alla differenziazione dell’offerta riescono a competere con successo anche sul mercato internazionale, dove le sfide sui prezzi si giocano intorno a pochi centesimi.
Prima del patto di “sistema”, che possa superare gli ostacoli che vengono dall’inefficienza della logistica e dai ritardi della burocrazia, che tutti attendiamo da sempre, è ora che gli operatori del settore comincino a migliorare la qualità offerta e, superando l’individualismo italiano, si aggreghino in imprese capaci di affrontare le sfide della grande distribuzione moderna. Forse non sarebbe male ritentare, prima di passare al patto di “sistema”, di migliorare l’efficienza e l’efficacia delle relazioni di filiera.

Corrado Giacomini

Economista – Comitato di Indirizzo del Corriere Ortofrutticolo

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