Molto spesso nella stampa nazionale si scrive, con orgoglio, che l’Italia è il Paese con il più alto numero di prodotti alimentari che hanno ottenuto il riconoscimento comunitario di denominazione di origine protetta (DOP) e di indicazione geografica protetta (IGP).
In questi giorni, nei quali il nostro MIPAAF è diventato “Ministero delle politiche agricole, forestali e della sovranità alimentare”, aggiunta che tanti tentano di interpretare, forse non è del tutto inutile cercare di chiarire, ancora una volta, cosa significa il marchio comunitario di riconoscimento e a che cosa serve.
Il marchio riconosce il diritto di proprietà intellettuale di un prodotto da parte di una collettività che, attraverso il rispetto di un disciplinare, ne garantisce l’origine e le caratteristiche tipiche generate, secondo la terminologia francese, dal terroir e dal savoir faire di quella stessa collettività. Il marchio può diventare marca (brand) quando il potenziale cliente percepisce il valore di quel prodotto in relazione alle caratteristiche tangibili (gusto, fragranza, ecc.) e intangibile (garanzia di qualità, serietà dell’azienda produttrice, ambiente da cui proviene, ecc.). Non è detto che sempre il marchio diventi brand.
L’obiettivo del “gruppo” di produttori (Reg. n. 1151/2012) che chiede e ottiene il riconoscimento della DOP o della IGP è, prima di tutto, la tutela sui mercati della denominazione a fronte della concorrenza sleale da parte di soggetti terzi attraverso l’uso improprio o l’abuso del nome senza averne diritto.
Ovviamente il prodotto ha un nome, citato nel disciplinare e riconosciuto dalla denominazione, e un logo distintivo, che non sempre è riportato nel disciplinare, e il marchio comunitario aggiunto rappresenta l’attestazione del diritto al riconoscimento, perché è stato accertato dall’Ente di controllo che il prodotto corrisponde alle caratteristiche imposte dal disciplinare.
Nome, logo e marchio comunitario potrebbero diventare il brand del prodotto che ha ottenuto la denominazione, ma non è detto che ciò avvenga se non è supportato da una adeguata comunicazione che riesca a trasformare questi elementi visivi in un messaggio di valore per il potenziale cliente e in una offerta che rappresenti per le caratteristiche di volume, di prezzo e di inserimento tra le referenze un fattore competitivo economicamente conveniente per i punti vendita. Infatti, non sempre avviene che nome, logo e marchio comunitario diventino il brand del prodotto, se non è sostenuto da una sufficiente e adeguata pubblicità e comunicazione, come può capitare per le denominazioni con ridotta base produttiva, o perché le imprese che commercializzano quel prodotto puntano su un brand registrato che possa rafforzare i messaggi, tangibili e intangibili, che quel prodotto può rivolgere al consumatore accrescendo la percezione di valore. E il caso, ad esempio, della DOP “Mela Val di Non” il cui successo commerciale è legato al brand registrato “Melinda”, mentre il nome, il logo impresso sulla forma e il marchio comunitario del Formaggio Parmigiano Reggiano è diventato anche il brand.
Il Rapporto ISMEA-QUALIVITA 2021 sulle produzioni agroalimentari e vitivinicole italiane DOP, IGP e STG registra 841 prodotti che hanno ottenuto questi riconoscimenti, di cui 315 agroalimentari, per un valore alla produzione di 7,3 miliardi di Euro, e 526 prodotti vitivinicoli, per un valore alla produzione di 9,3 miliardi. I primi 15 prodotti agroalimentari, con un valore alla produzione nel 2020 di 6,2 miliardi, rappresentano complessivamente l’84,9% del valore dei 315 prodotti agroalimentari, e solo due (Grana Padano DOP e Parmigiano Reggiano DOP) il 50,6%. Per concludere, gli altri 300 prodotti DOP, IGP e STG (questi ultimi, Specialità Tradizionale Garantita, sono solo 3) hanno prodotto nel 2020 poco più di 1 miliardo di Euro per cui si può calcolare, grossolanamente, che il valore medio alla produzione di ciascuno di questi prodotti sia attorno a 3,6 milioni di euro. Sono numeri ben noti, ma ogni volta credo che non sia male porci la domanda, se conviene chiedere il riconoscimento per prodotti con mercati molto piccoli, se non addirittura locali, dove non conviene investire per affermare un brand. Sempre nel Rapporto di ISMEA-QUALIVITA ho letto che tra le nuove DOP e IGP hanno ottenuto il riconoscimento la DOP del Pistacchio di Raffadali e l’IGP della Pesca di Delia. Faccio i migliori auguri a questi prodotti che aumentano il portafoglio di prodotti DOP, IGP e STG italiani, ma non so se i risultati corrisponderanno alle speranze.
Corrado Giacomini
economista agrario
DOP E IGP, NON SEMPRE IL MARCHIO DIVENTA BRAND. E DUE SOLI PRODOTTI VALGONO PIÙ DELLA METÀ DELL’INTERO PANIERE
Molto spesso nella stampa nazionale si scrive, con orgoglio, che l’Italia è il Paese con il più alto numero di prodotti alimentari che hanno ottenuto il riconoscimento comunitario di denominazione di origine protetta (DOP) e di indicazione geografica protetta (IGP).
In questi giorni, nei quali il nostro MIPAAF è diventato “Ministero delle politiche agricole, forestali e della sovranità alimentare”, aggiunta che tanti tentano di interpretare, forse non è del tutto inutile cercare di chiarire, ancora una volta, cosa significa il marchio comunitario di riconoscimento e a che cosa serve.
Il marchio riconosce il diritto di proprietà intellettuale di un prodotto da parte di una collettività che, attraverso il rispetto di un disciplinare, ne garantisce l’origine e le caratteristiche tipiche generate, secondo la terminologia francese, dal terroir e dal savoir faire di quella stessa collettività. Il marchio può diventare marca (brand) quando il potenziale cliente percepisce il valore di quel prodotto in relazione alle caratteristiche tangibili (gusto, fragranza, ecc.) e intangibile (garanzia di qualità, serietà dell’azienda produttrice, ambiente da cui proviene, ecc.). Non è detto che sempre il marchio diventi brand.
L’obiettivo del “gruppo” di produttori (Reg. n. 1151/2012) che chiede e ottiene il riconoscimento della DOP o della IGP è, prima di tutto, la tutela sui mercati della denominazione a fronte della concorrenza sleale da parte di soggetti terzi attraverso l’uso improprio o l’abuso del nome senza averne diritto.
Ovviamente il prodotto ha un nome, citato nel disciplinare e riconosciuto dalla denominazione, e un logo distintivo, che non sempre è riportato nel disciplinare, e il marchio comunitario aggiunto rappresenta l’attestazione del diritto al riconoscimento, perché è stato accertato dall’Ente di controllo che il prodotto corrisponde alle caratteristiche imposte dal disciplinare.
Nome, logo e marchio comunitario potrebbero diventare il brand del prodotto che ha ottenuto la denominazione, ma non è detto che ciò avvenga se non è supportato da una adeguata comunicazione che riesca a trasformare questi elementi visivi in un messaggio di valore per il potenziale cliente e in una offerta che rappresenti per le caratteristiche di volume, di prezzo e di inserimento tra le referenze un fattore competitivo economicamente conveniente per i punti vendita. Infatti, non sempre avviene che nome, logo e marchio comunitario diventino il brand del prodotto, se non è sostenuto da una sufficiente e adeguata pubblicità e comunicazione, come può capitare per le denominazioni con ridotta base produttiva, o perché le imprese che commercializzano quel prodotto puntano su un brand registrato che possa rafforzare i messaggi, tangibili e intangibili, che quel prodotto può rivolgere al consumatore accrescendo la percezione di valore. E il caso, ad esempio, della DOP “Mela Val di Non” il cui successo commerciale è legato al brand registrato “Melinda”, mentre il nome, il logo impresso sulla forma e il marchio comunitario del Formaggio Parmigiano Reggiano è diventato anche il brand.
Il Rapporto ISMEA-QUALIVITA 2021 sulle produzioni agroalimentari e vitivinicole italiane DOP, IGP e STG registra 841 prodotti che hanno ottenuto questi riconoscimenti, di cui 315 agroalimentari, per un valore alla produzione di 7,3 miliardi di Euro, e 526 prodotti vitivinicoli, per un valore alla produzione di 9,3 miliardi. I primi 15 prodotti agroalimentari, con un valore alla produzione nel 2020 di 6,2 miliardi, rappresentano complessivamente l’84,9% del valore dei 315 prodotti agroalimentari, e solo due (Grana Padano DOP e Parmigiano Reggiano DOP) il 50,6%. Per concludere, gli altri 300 prodotti DOP, IGP e STG (questi ultimi, Specialità Tradizionale Garantita, sono solo 3) hanno prodotto nel 2020 poco più di 1 miliardo di Euro per cui si può calcolare, grossolanamente, che il valore medio alla produzione di ciascuno di questi prodotti sia attorno a 3,6 milioni di euro. Sono numeri ben noti, ma ogni volta credo che non sia male porci la domanda, se conviene chiedere il riconoscimento per prodotti con mercati molto piccoli, se non addirittura locali, dove non conviene investire per affermare un brand. Sempre nel Rapporto di ISMEA-QUALIVITA ho letto che tra le nuove DOP e IGP hanno ottenuto il riconoscimento la DOP del Pistacchio di Raffadali e l’IGP della Pesca di Delia. Faccio i migliori auguri a questi prodotti che aumentano il portafoglio di prodotti DOP, IGP e STG italiani, ma non so se i risultati corrisponderanno alle speranze.
Corrado Giacomini
economista agrario
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