CAPORALATO, UNA PIAGA. MA LA REPRESSIONE NON SEMPRE È EFFICACE, ANCHE PENALMENTE

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Il caporalato continua a rappresentare un grave problema sociale ed economico. Secondo i dati Istat riportati nel VI Rapporto “Placido Rizzotto” a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto – FLAI CGIL, nel nostro Paese, sono 230 mila i braccianti che subiscono sfruttamento e abusi con contratti fantasma e paghe che vanno dai 15 ai 35 euro al giorno, spesso al di sotto di due euro all’ora. Questi lavoratori sono costretti a lavorare senza una chiara definizione dell’orario di lavoro, con salari decisi arbitrariamente, mancanza di strumenti di sicurezza e nessuna copertura assistenziale o previdenziale. Tra questi, 55.000 sono donne che subiscono una triplice forma di sfruttamento: lavorativo, retributivo e sessuale. La maggior parte dei lavoratori proviene da paesi come Nigeria, Senegal, Costa d’Avorio, Gambia, Mali, Bulgaria, Romania, Pakistan, Bangladesh e India. La geografia dei ghetti, con 194 aree critiche nel Mezzogiorno, rappresenta un’ulteriore dimensione del problema. In queste baraccopoli fatiscenti vivono almeno 10.000 lavoratori in condizioni disumane. Criticità emergono anche in Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia.
Il rapporto mette in luce come la vulnerabilità economica degli occupati irregolari in agricoltura sia aggravata dalla mancanza di sostegno familiare e da condizioni di lavoro precarie. Molti di questi lavoratori vivono in famiglie monocomponente o in coppie senza figli, rendendo ancora più difficile uscire dalla condizione di sfruttamento.
Un caso emblematico è quello di Satnam Singh, la cui vedova ha ottenuto adesso un permesso di soggiorno speciale per ragioni di giustizia. Singh è morto nell’area dell’Agro Pontino mentre, secondo la denuncia delle organizzazioni sindacali, lavorava nei campi per 4 euro l’ora. La causa della sua morte è attribuita alle pessime condizioni di lavoro e alle negligenze del suo datore, che ha cercato di nascondere il suo impiego irregolare.
Questo fatto, denunciato dallo stesso Presidente della Repubblica come episodio di “vergognosa e inaccettabile sopraffazione”, ha sollevato interrogativi sull’eventuale inquinamento delle prove e sul possibile “dolo eventuale” del datore di lavoro, aggravando molto la sua posizione legale.
Il rapporto evidenzia che l’articolo 603 bis del Codice penale (Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) si è rivelato uno strumento fondamentale nella repressione del caporalato. L’articolo in esame, riformato nel 2017, ha permesso di affrontare in maniera più incisiva il fenomeno, rendendo visibile e penalmente rilevante un problema che spesso restava nascosto. Questa disposizione è stata utilizzata in circa il 91% dei procedimenti intercettati. Tuttavia, i cosiddetti indici di sfruttamento contenuti nella norma avevano suscitato dibattiti e critiche in quanto giudicati incompatibili con i principi di determinatezza e tipicità del diritto penale. La preoccupazione che l’articolo 603 bis c.p. potesse trasformare irregolarità civilistico-amministrative in reati penali (ad esempio, la mancata affissione di un cartello con indicazioni sulla sicurezza) è stata, però, negli anni superata dall’uso consolidato della norma. Questa viene costantemente impiegata nei soli casi in cui è violata la dignità del lavoratore attraverso l’imposizione di condizioni di sfruttamento a favore della massimizzazione del profitto dell’impresa. Non si riscontrano casi eclatanti di utilizzo di questo reato per colpire violazioni “bagatellari” degli indicatori. Lo sfruttamento è considerato penalmente rilevante quando costituisce il sistema di produzione dell’impresa, generando profitti illeciti e inquinando l’economia “sana”, al pari di una forma di criminalità economica.
Questo si evince dalla prassi, considerando che, come mostrano i dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), molti controlli ispettivi si sono conclusi con l’irrogazione di sole sanzioni amministrative per irregolarità che potrebbero essere indici di sfruttamento, come l’impiego di manodopera senza contratto. In sede giudiziaria sia la giurisprudenza di merito sia di legittimità hanno mantenuto un orientamento compatto nel considerare la norma compatibile con i principi penalistici. In particolare, la Corte di Cassazione — che si è espressa soprattutto in sede cautelare — ha affermato che l’indeterminatezza della fattispecie è evitata dal fatto che il legislatore ha declinato delle “situazioni sintomatiche” dello sfruttamento che devono essere accertate concretamente dal giudice, in relazione al caso specifico, e ha cassato alcune decisioni in cui tale valutazione è stata sommaria o insufficiente.
Un caso significativo del 2020 ha coinvolto un imprenditore agricolo di Matera per lo sfruttamento di braccianti nella raccolta delle fragole. Il Tribunale delle Libertà di Cosenza ha revocato la misura cautelare applicata all’imprenditore, ritenendo che la minima difformità retributiva (circa 3 euro giornalieri) rispetto ai contratti collettivi nazionali e la mancata adozione di guanti nella raccolta delle fragole — che avrebbe causato un danno al frutto ma non esposto i lavoratori a un grave pericolo per la loro salute — fossero insufficienti a configurare le condizioni di sfruttamento previste dall’articolo 603 bis c.p. La Cassazione, pronunciandosi in sede di ricorso cautelare, ha concordato che gli elementi addotti dalla Procura erano insufficienti per applicare la misura cautelare.

Gualtiero Roveda

avvocato, giornalista pubblicista

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  1. La reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali.
    La reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, e alle ferie.
    La sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro.
    La sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti
    ↩︎

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