AI PRODUTTORI GLI STESSI PREZZI DI 30 ANNI FA. COME SE NE ESCE? NON SE NE ESCE

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Per una volta parlo da consumatore. Metà luglio, Sardegna, località importante costa nord, punto vendita Despar. Acquisto uva bianca Vittoria senza semi a 6,90 €/kg, qualità mediocre, buccia spessa e poco dolce. Pesche e nettarine a 3,50 €/kg, dure come sassi. Le lascio in casa, qualcuna matura (discreta) , le altre le butto. Unica frutta buona qualche anguria (Gavina, Perla nera). Le altre estati dal Cagliaritano arrivava (4 ore di camion) un produttore con frutta e verdura sua (o quasi), care ma buone. Senza di lui bisogna rassegnarsi a frutta mediocre a caro prezzo.

Torno in città (Bologna). Vado alla Coop (sono cliente per motivi logistici) e compro cestini Fior Fiore di albicocche e nettarine, mediocri le prime e buone le seconde. Prezzo per entrambe tra 3,50 e 4 €/kg. Vado dal fruttivendolo di fiducia (roba quasi sempre buona ma cara). Uva bianca o rossa pugliese a 6,90 €/kg, susine (buone) a 3,50 €/kg, pesche/nettarine allo stesso prezzo. Duroni trentini a 6-7 €/kg, dipende dalla grandezza. Qualità media buona, l’uomo sa cosa comprare.

Conclusioni: la frutta costa al consumo, ed è facile prendere ‘fregature’. Quindi i consumi si adeguano, nessuno si meravigli se calano. Prodotti di qualità al market costano come dal fruttivendolo privato. Se poi vai al discount quella dei prezzi diventa una giungla, tra promozioni e offerte stracciate, però anche lì i prezzi tendono in alto e non bisogna porsi troppi problemi di qualità.

Ovviamente da metà luglio ad oggi i prezzi sono cambiati, l’uva costa meno, pesche/nettarine e albicocche sono più buone (a prezzi più o meno simili), le promozioni impazzano (sento Eurospin che vende uva a 1,30/kg ma ne devi comprare 2 kg).

Fatta questa esperienza da consumatore , torno a fare il giornalista e leggo un a nota di CIA Ferrara che i prezzi di mercato “negli ultimi 20-30 anni sono sostanzialmente rimasti stabili, diversamente da costi di produzione che sono aumentati, fino a duplicare o addirittura triplicare tra il 2021 e il 2022”. CIA fa vari esempi: nel 1994 le patate erano quotate dalla Camera di Commercio di Bologna 0,21 cent/kg e la stessa quotazione la ritroviamo nel 2020. Stessa “sorte” per le pere Abate, in un range di tempo simile: 0,75 nel 1991 e 0,79 nel 2020 (nel 2021 i prezzi sono aumentati solo per la quasi totale assenza di prodotto con una media di prezzi di 0,62 centesimi).

Gli asparagi sono passati dai 2,21 cent/kg del ’94 a 2,67 nel 2020 con una media di 2,28 centesimi; le mele Fuji da 0,52 del 2003 a 0,68 del 2020; la pera Conference dal 2008 ha praticamente la stessa quotazione di circa 0,60-0,65 cent e le carote sono passate da 0,22 cent di 20 anni fa ai 0,09 di quest’anno, “un prezzo davvero inaccettabile”.

Conclusione? “Non è più possibile andare avanti così. Non è pensabile che a un produttore venga dato per l’Abate, in un’annata con medie produttive normali, lo stesso prezzo di 30 anni fa”. Come rimediare? CIA chiede due cose: la proroga del credito d’imposta per l’acquisto del gasolio agricolo, che non è stata inserita del Decreto Aiuti, per almeno tutto il 2022 ; e la piena applicazione “della “Direttiva sulle pratiche commerciali sleali che non consentirebbe più a chi acquista i nostri prodotti di pagarli una cifra inferiore al costo di produzione”.

Cosa voglio dire? Che quella dei prezzi è una giungla in cui il povero consumatore si smarrisce (e non credo che togliere l’Iva del 4% cambierà molto le cose). Il povero consumatore, sempre più ‘povero’, non ci capisce niente. Capisce solo che i prezzi aumentano, che col suo stipendio fa fatica più di prima ad arrivare a fine mese. Quanto alle richieste di CIA sono destinate a cadere nel vuoto: il credito d’imposta sul gasolio non è stato rinnovato e quanto alla direttiva sulle pratiche sleali è ancora lì sulla carta, nessuno vi ha fatto ancora ricorso (le minacce sono tante, ma a vuoto).

Intanto se i produttori soffrono, anche le catene della Distribuzione moderna lanciano segnali di allarme per i loro bilanci. L’ultimo comunicato di Federdistribuzione (29 luglio) lo dice chiaramente: l’inflazione viaggia sul 9-10%, l’aumento dei prezzi si sta gradualmente scaricando sul carrello della spesa, i consumatori “ricercheranno sempre di più risparmio e convenienza”.

Le aziende della DM in questi mesi “con grande senso di responsabilità verso le famiglie, sono riuscite a non scaricare sui consumi tra i 2 e i 3 punti d’inflazione registrati in fase d’acquisto. Questa situazione è sempre meno sostenibile dalle imprese, poiché ne mette a rischio la tenuta economica” Quindi? Appello al governo (dimissionario): “E’ più che mai urgente continuare a sostenere in modo concreto e con tutte le azioni possibili le imprese e il potere d’acquisto delle famiglie, in particolare quelle delle fasce a reddito basso e con figli”.

In sostanza: bisogna aiutare i consumatori perché continuino a consumare (e il Decreto aiuti qualcosa fa). E perché così si aiutano indirettamente anche le aziende della DM a salvare i loro bilanci. Quanto ai produttori chi li aiuta? I produttori, mi viene da dire, possono serenamente fallire tra prezzi fermi a 30 anni fa e costi produttivi esplosi (energia, gasolio, concimi, logistica ecc). Se i retailer si sono tenuti in casa 2-3 punti d’inflazione, quanti se ne sono tenuti i produttori (finora) per non chiudere bottega?

Chi produce andrebbe tutelato non dico di più ma almeno alla stessa stregua di chi distribuisce e di chi consuma. Invece consumatori e GDO hanno sempre qualche santo in paradiso che provvede; e il mondo produttivo invece è sempre lì a chiedere soltanto “sovvenzioni e detassazioni” (quando arrivano, quasi come elemosine). Come dire: siete imprese, assumetevi i vostri rischi. E’ giusto? E’ sbagliato? E’ sicuramente un’ingiustizia, però è cosi da sempre. E forse va bene così, perché quando arriva il ministro ad una assemblea di agricoltori tutti lo applaudono…

Lorenzo Frassoldati
direttore@corriere.ducawebdesign.it

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