EMILIA ROMAGNA, IN 10 ANNI L’ORTOFRUTTA HA PERSO 500MILA TONS. CIA: “PENSARE AD UN NUOVO SISTEMA”

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Frutticoltura ridimensionata, meno posti di lavoro, reddito agricolo in picchiata. Marco Bergami (nella prima foto dall’alto) e Giordano Zambrini (nella seconda foto), presidenti di Cia Bologna e Cia Imola, assieme, si sono fatti portavoce di un forte malcontento evidenziato dagli organi direttivi della stessa organizzazione ma anche, e soprattutto, degli stessi soci Cia.

 

In Emilia Romagna in un decennio il settore ortofrutta si è notevolmente ridimensionato con un segno meno davanti a 21.000 ettari di frutteti e 5 milioni di quintali di produzione ortofrutticola che equivalgono a 20.000 posti di lavoro in meno nella filiera agroalimentare.

“Questa è una crisi che perdura da tanto, troppo – sottolineano Bergami e Zambrini – Il cammino è partito da molto lontano, da otto, nove anni di forte difficoltà, da quindici anni di sofferenza nei prezzi, da una perdita di Plv – Produzione lorda vendibile, che ha radici lunghe e tutto questo deve far riflettere la politica locale. “Come sindacato – dicono alla Cia di Imola e Bologna– è illusorio che possiamo veicolare scelte. Possiamo aprire dibattiti, ma il fare è in capo a chi amministra e dirige”.

La situazione è drammatica e la politica locale deve dare indicazioni anche in relazione ad un’evoluzione del sistema cooperativo. La desertificazione del territorio costringe le singole cooperative a snaturarsi, comprimendo sempre più i prezzi alla produzione al ribasso incapaci a coprire i costi di produzione. Assistiamo quindi da anni a una spirale che non trova soluzione, che non offre risposte alle aziende socie.

 

“In uno scenario così difficile – sottolineano ancora i presidenti di Cia Bologna e Imola – occorre arrivare ad un modello di rappresentanza politico-sindacale aggiornato con questa nuova fase che stiamo vivendo. I prodotti non cambiano prezzo in base all’associazione di appartenenza, Va ripensato tutto il sistema”.

L’agricoltura è sempre stato un settore povero. Ha vissuto decenni di prosperità a fronte di aiuti comunitari e in questo periodo storico si è investito fortemente nella frutticoltura a fronte di un prezzo minimo garantito che ha portato a un forte investimento di colture frutticole destinate a essere in gran parte distrutte. Questo è solo l’inizio di un ragionamento che, per la Cia, continuerà in tempi e modi che saranno dettati anche dalle risposte alle sollecitazioni attuate. Meno prodotti, maggiore consumo, prezzi al consumo invariati, prezzi alla produzione in calo. Questa in sintesi la situazione aggiornata dell’estate 2015, e non solo, che ha portato ad una forte crisi del settore ortofrutticolo. Un tema di cui si sente parlare spesso ma non in modo approfondito. Complice il caldo dell’ultimo mese, si è avuto, infatti, un parziale risveglio della domanda, con un incremento stimato nell’ordine del 5%. Negli ultimi 15 anni i consumi italiani si sono invece ridotti di 1,7 milioni di tonnellate con un consumo pro capite annuo fermo a 131 kg di prodotti ortofrutticoli.

“La riduzione del potere d’acquisto per effetto della crisi e modelli di consumo alimentari che non appartengono alla nostra cultura, come ha sottolineato Dino Scanavino, presidente nazionale della Cia in occasione della Festa della frutta e della verdura promossa da Expo nel mese di luglio, sono le ragioni alla base della contrazione della domanda”.

L’ortofrutta si conferma comunque uno dei pilastri dell’agroalimentare “made in Italy” sia per valore sia per il forte orientamento all’internazionalizzazione. Con una Plv che nel 2013 ha sfiorato i 13 miliardi di euro, il comparto ha rappresentato un quarto del valore della nostra produzione agricola e la prima voce dell’export agroalimentare.

“Occorre dunque – sottolinea la Cia – sostenere il rilancio dei consumi interni, tutelare la redditività delle imprese agricole accorciando la filiera e soprattutto restringendo la forbice tra prezzi sul campo e prezzi al consumo, difendere il ‘made in Italy’ in un comparto che è cresciuto grazie all’export, ma che ha subito pesanti contraccolpi dall’aumento delle barriere non tariffarie (specie fitosanitarie) nonché dalla chiusura, dallo scorso anno, del mercato russo”.

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