MADE IN ITALY, IL “MAGIC MOMENT” NON DURERÀ IN ETERNO

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Non basta sfondare storiche barriere. Con le nostre pere siamo arrivati finalmente negli Stati Uniti salvo scoprire che per le Abate c’è poco mercato semplicemente perché là nessuno le conosce. Quindi non basta fare qualità, va accompagnata con formazione e comunicazione. Il vino insegna. Esportare non è un invito a una cena di gala, i mercati vanno conquistati con le dovute strumentazioni e attenzioni.

Oggi assemblea di Fruitimprese a Roma mentre a Parma Cibus racconta al mondo la forza innovatrice del nostro agroalimentare. Però il rischio è montarsi la testa. Torniamo coi piedi per terra, dice il presidente di Federalimentare, Ferrua. Secondo una ricerca Doxa – Federalimentare, per 6 italiani su 10 l’alimentare è il settore che ci rappresenta meglio nel mondo e quello che ha investito di più in sostenibilità. Fa meglio di altre punte di diamante dell’italianità come auto, tessile, calzature e arredo. E gli italiani (in media 7 su 10) si fidano sia dei prodotti alimentari che dei controlli fatti dalle aziende sui cibi.

Però alla percezione dell’industria alimentare come primo e vero simbolo del made in Italy si oppone un quadro di negatività. Mercato interno in recessione ed export positivo nel 2013 (+5,8%) ma in rallentamento e apre piatto nel 2014. Fatto sta che la traversata della crisi si sta ulteriormente allungando e che l’industria alimentare italiana insegue altri paesi sul fronte dell’incidenza dell’export sul fatturato: il nostro 20% viene superato da Germania (33%), Francia (26%) e Spagna (22%). Altro che ubriacarsi coi record del made in Italy!

Bisogna invece lavorare a testa bassa per conquistare nuovi mercati col sostegno del sistema pubblico e di quello fieristico. E qui l’industria alimentare segnala pericoli all’orizzonte come “nuovi marchi orizzontali del made in Italy alimentare” o l’integralismo “antistorico di campagne mediatiche sull’origine delle materie prime per favorire filiere autarchiche e materia prima nazionale (come se quella di importazione non fosse di assoluta qualità), piuttosto che la capacità di trasformazione delle imprese alimentari italiane”.

Insomma bisogna lavorare uniti perché il momento magico del made in Italy si consolidi e dia frutti ancora più copiosi per il futuro. Oggi Marco Salvi di Fruitimprese parla a nome di un settore che nel 2013 ha esportato ortofrutta per un valore superiore ai 4,1 miliardi di euro, anche se con una riduzione dei volumi del 7%, che preoccupa non poco. Il ministro Martina e il premier Renzi parlano di un balzo possibile dell’export agroalimentare da 30 a 50 miliardi di euro. Ma è chiaro che mondo della produzione, della trasformazione e del commercio devono trovare nuove sintesi fra loro.

Non servono formule magiche ma più dialogo tra gli attori del sistema Italia e una politica attenta che recuperi risorse finora sprecate in clientele e mille inutili rivoli. Insediandosi al ministero, Martina aveva parlato di “progetti unitari”. Proprio quello che ci vuole. Inutile concertare con tutti, si va avanti con chi ci sta. Attendiamo con ansia i primi esempi concreti.

 

Lorenzo Frassoldati

direttore del Corriere Ortofrutticolo

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