di Albano Bergami *
L’areale produttivo storico della pianura padana, definita da alcuni Fruit valley, in questi ultimi tempi, si è fortemente ridimensionato attraverso un’accelerazione degli estirpi, con conseguente perdita di capacità produttiva e con trend apparentemente inarrestabile, rendendone evidenti gli effetti anche a chi non è direttamente collegato al settore.
Visivamente il fenomeno ha modificato interi territori, lasciando ampi spazi lavorati dove prima si coltivavano diffusamente piantagioni di pesche, nettarine, pere… Dovrebbe sorprendere il totale disinteresse mostrato per questa evidenza dai molti che pur professandosi “ecogreen”, non hanno trovato una sola parola per commentare l’abbattimento di milioni di alberi da frutto, come se questi non producessero oltre che valore, ombra e fotosintesi esattamente come quelli per cui l’ UE si appresta a finanziarne la piantumazione, attraverso le risorse milionarie previste dal PNRR. Non può certo essere tema di dibattito l’attribuzione agli effetti del cambiamento climatico in corso ed al difficile adattamento delle specie frutticole coltivate, le maggiori cause di forzato abbandono da parte di molte aziende produttrici; ma allo stesso tempo sarebbe forviante attribuire alle sole difficoltà produttive uno stato di sofferenza del settore, che trova radici molto più profonde e complesse. Periodi di crisi si sono verificati ciclicamente fin dalla nascita della frutticoltura industriale, le cui cause erano quasi sempre da ricercare in ambito organizzativo/commerciale e permettevano comunque di guardare con relativo ottimismo al futuro delle filiere. La percezione è mutata negativamente perlomeno nell’ultimo ventennio, dove evidentemente il settore non è riuscito a fornire le risposte necessarie al mutato contesto del commercio internazionale. La globalizzazione dei mercati, il sempre maggior peso della distribuzione organizzata, Paesi UE ed extra UE che si affrancavano sempre più come nostri agguerriti competitors e non più unicamente come mercati di sbocco, sono questi tra i maggiori elementi che rendevano assolutamente necessaria un’adeguata risposta organizzativa del nostro Paese.
Da qui la diffusa convinzione che il processo di aggregazione delle aziende produttrici, avviato con l’introduzione dell’ OCM, dovesse diventare il cardine di un nuovo riassetto commerciale, rafforzando e dando centralità alle Organizzazioni dei Produttori (OP), alle quali sono attribuite le funzioni di concentrazione, controllo e stabilizzazione dell’offerta degli ortofrutticoli freschi, ritenuti elementi indispensabili in considerazione dei profondi cambiamenti strutturali che hanno contraddistinto l’evoluzione del settore distributivo. Oggi come allora la politica comunitaria continua a finanziare il processo di rafforzamento delle OP attraverso l’ OCM e si moltiplicano gli appelli ad indicare in una ulteriore maggiore concentrazione dell’offerta la risposta necessaria alle esigenze dei produttori. Allo stesso tempo stupisce la totale mancanza di analisi critica e pubblica sui risultati fin qui prodotti ed eventualmente degli obiettivi conseguiti in seguito all’applicazione delle politiche adottate. Il proliferare di OP, maggiore in alcune regioni e comparti, ed il frutticolo tra questi, ne confermerebbero l’ampia condivisione degli obiettivi riscontrata in diversi ambiti, da quello politico in primis, che agendo pure sull’ aggregazione indirizza le produzioni, anche se troppo spesso verso percorsi demenziali (vedi farm to fork) a quello delle rappresentanze sindacali agricole, sempre in prima linea nel richiedere più aggregazione, purché sia quella degli altri, mentre tra loro continuano a professare la divisione.
Perlomeno singolare è riscontrare come la nascita di OP sia stata “caldeggiata” da autorevoli esponenti della GDO e “sostenuta” da alcuni commercianti ortofrutticoli, che evidentemente nell’aggregazione dei produttori hanno individuato lo strumento per dare sfogo al loro “latente spirito cooperativistico”, trasformando difatti i fornitori dai quali acquistare le produzioni, in conferenti ai quali vendere servizi. E’ un dato di fatto che l’interpretazione che si è voluto dare all’aggregazione ha attribuito al settore produttivo il ruolo di unico ammortizzatore per tutta la filiera, al quale trasferire i risultati di tutte le inefficienze, le speculazioni e le distorsioni che dal campo alla tavola si vanno generando e producendo in troppi casi il risultato inverso a quello auspicato dalla riforma OCM. Il moltiplicarsi di denunce provenienti dal comparto produttivo, relative alle liquidazioni del prodotto conferito a livelli tali da non permettere la sostenibilità economica, non possono trovare giustificazione unicamente nelle spietate regole imposte dal libero mercato, ma credo fermamente siano in parte il risultato della mancanza di un fattore competitivo tra le varie realtà commerciali/distributive, che si traduce inevitabilmente in mancanza di efficienza. Un elemento fra i tanti che pone un freno all’efficienza delle OP credo sia determinato anche dall’ attuale prassi adottata generalmente nella fase di liquidazione ai soci conferenti, che non prevede la consegna dell’evidenza del dettaglio dei costi, ma del solo valore attribuito alle singole voci riportate a listino. L’adozione di questa integrazione creerebbe difatti un “termometro” dell’efficienza e della trasparenza, con la possibilità di stimolare un salutare confronto tra le diverse imprese.
Ampi margini di miglioramento generale andrebbero ricercati nell’aumento di efficacia delle imprese sui mercati, possibili concretizzando e sviluppando progetti commerciali comuni, oggi agevolati dalle modifiche legislative comunitarie, ma la storia recente ci dovrebbe insegnare che per sperare di non “bruciare” progetti anche molto ben costruiti, è necessario lavorare sull’ efficienza e trasparenza per arrivare all’efficacia e non viceversa.
Spero che queste personali riflessioni siano il presupposto all’apertura di un dibattito, anche critico ma costruttivo e concreto. A tempo ampiamente scaduto occorre richiamare tutti coloro che hanno responsabilità decisionale ad attivarsi nel pur difficile tentativo di rilanciare un comparto che è stato e continua ad essere generatore di valore. Lo meritano le tante persone che operano nel settore; voglio continuare a pensare che lo meriti anche il Paese.
*imprenditore agricolo
LA FRUIT VALLEY STA SCOMPARENDO NEL DISINTERESSE GENERALE. E L’AGGREGAZIONE NON FUNZIONA TANTO BENE
di Albano Bergami *
L’areale produttivo storico della pianura padana, definita da alcuni Fruit valley, in questi ultimi tempi, si è fortemente ridimensionato attraverso un’accelerazione degli estirpi, con conseguente perdita di capacità produttiva e con trend apparentemente inarrestabile, rendendone evidenti gli effetti anche a chi non è direttamente collegato al settore.
Visivamente il fenomeno ha modificato interi territori, lasciando ampi spazi lavorati dove prima si coltivavano diffusamente piantagioni di pesche, nettarine, pere… Dovrebbe sorprendere il totale disinteresse mostrato per questa evidenza dai molti che pur professandosi “ecogreen”, non hanno trovato una sola parola per commentare l’abbattimento di milioni di alberi da frutto, come se questi non producessero oltre che valore, ombra e fotosintesi esattamente come quelli per cui l’ UE si appresta a finanziarne la piantumazione, attraverso le risorse milionarie previste dal PNRR. Non può certo essere tema di dibattito l’attribuzione agli effetti del cambiamento climatico in corso ed al difficile adattamento delle specie frutticole coltivate, le maggiori cause di forzato abbandono da parte di molte aziende produttrici; ma allo stesso tempo sarebbe forviante attribuire alle sole difficoltà produttive uno stato di sofferenza del settore, che trova radici molto più profonde e complesse. Periodi di crisi si sono verificati ciclicamente fin dalla nascita della frutticoltura industriale, le cui cause erano quasi sempre da ricercare in ambito organizzativo/commerciale e permettevano comunque di guardare con relativo ottimismo al futuro delle filiere. La percezione è mutata negativamente perlomeno nell’ultimo ventennio, dove evidentemente il settore non è riuscito a fornire le risposte necessarie al mutato contesto del commercio internazionale. La globalizzazione dei mercati, il sempre maggior peso della distribuzione organizzata, Paesi UE ed extra UE che si affrancavano sempre più come nostri agguerriti competitors e non più unicamente come mercati di sbocco, sono questi tra i maggiori elementi che rendevano assolutamente necessaria un’adeguata risposta organizzativa del nostro Paese.
Da qui la diffusa convinzione che il processo di aggregazione delle aziende produttrici, avviato con l’introduzione dell’ OCM, dovesse diventare il cardine di un nuovo riassetto commerciale, rafforzando e dando centralità alle Organizzazioni dei Produttori (OP), alle quali sono attribuite le funzioni di concentrazione, controllo e stabilizzazione dell’offerta degli ortofrutticoli freschi, ritenuti elementi indispensabili in considerazione dei profondi cambiamenti strutturali che hanno contraddistinto l’evoluzione del settore distributivo. Oggi come allora la politica comunitaria continua a finanziare il processo di rafforzamento delle OP attraverso l’ OCM e si moltiplicano gli appelli ad indicare in una ulteriore maggiore concentrazione dell’offerta la risposta necessaria alle esigenze dei produttori. Allo stesso tempo stupisce la totale mancanza di analisi critica e pubblica sui risultati fin qui prodotti ed eventualmente degli obiettivi conseguiti in seguito all’applicazione delle politiche adottate. Il proliferare di OP, maggiore in alcune regioni e comparti, ed il frutticolo tra questi, ne confermerebbero l’ampia condivisione degli obiettivi riscontrata in diversi ambiti, da quello politico in primis, che agendo pure sull’ aggregazione indirizza le produzioni, anche se troppo spesso verso percorsi demenziali (vedi farm to fork) a quello delle rappresentanze sindacali agricole, sempre in prima linea nel richiedere più aggregazione, purché sia quella degli altri, mentre tra loro continuano a professare la divisione.
Perlomeno singolare è riscontrare come la nascita di OP sia stata “caldeggiata” da autorevoli esponenti della GDO e “sostenuta” da alcuni commercianti ortofrutticoli, che evidentemente nell’aggregazione dei produttori hanno individuato lo strumento per dare sfogo al loro “latente spirito cooperativistico”, trasformando difatti i fornitori dai quali acquistare le produzioni, in conferenti ai quali vendere servizi. E’ un dato di fatto che l’interpretazione che si è voluto dare all’aggregazione ha attribuito al settore produttivo il ruolo di unico ammortizzatore per tutta la filiera, al quale trasferire i risultati di tutte le inefficienze, le speculazioni e le distorsioni che dal campo alla tavola si vanno generando e producendo in troppi casi il risultato inverso a quello auspicato dalla riforma OCM. Il moltiplicarsi di denunce provenienti dal comparto produttivo, relative alle liquidazioni del prodotto conferito a livelli tali da non permettere la sostenibilità economica, non possono trovare giustificazione unicamente nelle spietate regole imposte dal libero mercato, ma credo fermamente siano in parte il risultato della mancanza di un fattore competitivo tra le varie realtà commerciali/distributive, che si traduce inevitabilmente in mancanza di efficienza. Un elemento fra i tanti che pone un freno all’efficienza delle OP credo sia determinato anche dall’ attuale prassi adottata generalmente nella fase di liquidazione ai soci conferenti, che non prevede la consegna dell’evidenza del dettaglio dei costi, ma del solo valore attribuito alle singole voci riportate a listino. L’adozione di questa integrazione creerebbe difatti un “termometro” dell’efficienza e della trasparenza, con la possibilità di stimolare un salutare confronto tra le diverse imprese.
Ampi margini di miglioramento generale andrebbero ricercati nell’aumento di efficacia delle imprese sui mercati, possibili concretizzando e sviluppando progetti commerciali comuni, oggi agevolati dalle modifiche legislative comunitarie, ma la storia recente ci dovrebbe insegnare che per sperare di non “bruciare” progetti anche molto ben costruiti, è necessario lavorare sull’ efficienza e trasparenza per arrivare all’efficacia e non viceversa.
Spero che queste personali riflessioni siano il presupposto all’apertura di un dibattito, anche critico ma costruttivo e concreto. A tempo ampiamente scaduto occorre richiamare tutti coloro che hanno responsabilità decisionale ad attivarsi nel pur difficile tentativo di rilanciare un comparto che è stato e continua ad essere generatore di valore. Lo meritano le tante persone che operano nel settore; voglio continuare a pensare che lo meriti anche il Paese.
*imprenditore agricolo
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